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N. 3 - Keith Haring
Il ballo e il writing sono una cornice intorno a un cuore di scenari autentici, e la cosa fondamentale è la determinazione del protagonista nell'inseguire i propri sogni. Una lezione che non ho mai dimenticato: andare avanti, malgrado le delusioni».
Il tipo di ballo in cui Led si specializza è l'Electric Boogie, un tecnica basata sulla ritmica contrazione dei muscoli e sulle onde che rendono il ballerino simile a un pupazzo robotico, fluido e sussultante. «Fino al 1985 ho ballato soprattutto in piedi. Fu il mio primo maestro a darmi il soprannome: quando ballavo in discoteca, i miei occhi riflettevano la luce come dei led. A quel tempo era un nome fantascientifico».
Luca amplia le sue conoscenze. Impara a conoscere i luoghi delle prime jam, raduni di ballerini provenienti da tutta Italia, a volte anche dall'estero. Nomi che hanno fatto la storia della breakdance, spesso sconosciuti al grande pubblico: come Angelino, Ice Mc, Storm, Zero T.
Ma inserirsi, farsi accettare e divenire parte di quel movimento suburbano, i cui codici vanno interpretati e decodificati, per Luca non fu semplice: «Al Central Park di Firenze, a metà degli anni '80, si tenevano i primi raduni. Erano le prime esibizioni a cielo aperto. Io mi sentivo sempre un po' out, ho dovuto faticare molto per guadagnare credibilità». Quella arriverà col tempo e l'esperienza. Nel 1989 supera le selezioni nazionali e conosce Storm e Swift Rock, importanti esponenti della scena tedesca; nel 1994 si aggiudica il titolo mondiale nella categoria Hip-Hop e nel 1996 in quella di Electric Boogie.
«Comunque – continua Luca – i tempi erano caratterizzati da feste e party. Non c'erano molte gare, la breakdance era una cosa per pochissimi. Il nostro riferimento divenne lo Zulu Party, che prende nome dalla Zulu Nation, movimento fondato dal padrino dell'Hip-Hop, Africa Bambaata.
Senza pensare ai soldi, ai timbri o alle tessere, ci si riuniva per divertirsi e confrontarsi, e per il gusto di sentirsi trasgressivi. Non rinnego però di aver vinto gare di federazione, che mi sono state utilissime per espandere le mie conoscenze».
È il 1989. Keith Haring sta disegnando i contorni delle sue celebri figure sulla parete della chiesa di Sant'Antonio Abate, a Pisa. Luca, che in quel momento si trova a Torre del Lago, viene avvisato da un amico. Insieme partono alla volta di Pisa, facendo girare la voce fra i ballerini del gruppo. «La piazza era tranquilla – ricorda Led – e si sentiva una musica, provenire dai ponteggi. Noi scendemmo dove ora si trova il bar Keith Haring: allora c'era la fermata della Lazzi, una compagnia privata di trasporti. Haring ascoltava i Public Enemy, un gruppo rap statunitense sui cui brani ci allenavamo spesso. Questo creò subito una connessione fra noi. Io credo che Haring conoscesse già il mondo del breaking, e che ne avesse rispetto. Lo dico perché, in Hip-Hop Files – lo storico libro della fotografa Martha Cooper – c'è uno scatto in cui lo si vede osservare i ballerini della Rock Steady Crew in azione».
«Quando si accorse che eravamo lì per ballare, scese dal ponteggio e venne a presentarsi col suo compagno. Mi sembrò una persona umile, pacifica e amichevole.
Scattammo una foto assieme, poi divenuta celebre. Ci regalò una spilla e una maglietta. Volle farci ballare sul tetto della Lazzi, con lo sfondo del murales, ma era pericoloso. Così tornammo sull'asfalto incandescente. La sera ci spostammo all'Associazione Deposito, un hangar dove Haring suonò musica house. Erano tempi matti. C'era c'era gente vestita da ciclista sui tavoli, e spesso svestita».
Dopo molti anni, Luca cerca ancora di trasmettere quel messaggio fondamentale ai suoi allievi, e a tutti quelli che si accostano al mondo dell'Hip-Hop dà questo consiglio: «Cercate di capirne l'essenza. Per farlo è necessario comprendere che dietro a questa parola si nascondono una storia e una cultura, alla cui base sta il breaking.
Lo so che i tempi sono cambiati, ma il principio fondante rimane lo stesso: l'unione, non la convenienza. Ci può essere rispetto anche quando le idee differiscono. Questo vale sia per l'Hip-Hop che per la vita in generale: anteporre la passione al conflitto».
Un messaggio che in molti hanno colto fra le pieghe del murale di Keith Haring.