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TERZO TEMPO
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L'ALTRA STORIA
La marina borbonica
Michele Eugenio Di Carlo
Le recenti analisi di studiosi di grande spessore come Daniele, Malanima, Fenoaltea, Ciccarelli, Collett, Davis, Tanzi, Aprile, hanno ricondotto sui corretti binari della storia il livello economico raggiunto dal Regno delle Due Sicilie nella prima metà dell’Ottocento.
Tommaso Pedio, il maggiore storico della Basilicata, docente di Storia Moderna all’Università di Bari, già tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso era giunto alle stesse conclusioni: il divario tra il nord e il sud del paese non aveva origine antica, ma nasceva dopo l’Unità d’Italia da precise scelte di politica governativa che la classe politica meridionale, espressione di una minoranza elitaria e benestante, non poteva contraddire, presa da interessi che il patto unitario aveva garantito, a scapito dei ceti subalterni che avrebbero pagato il conto con la miseria e l’emigrazione.
Tommaso Pedio, nelle sue lezioni all’Università, prospettava ai suoi studenti tesi totalmente nuove: la classe dirigente italiana unitaria con politiche discriminatorie aveva reso povera quella parte dell’Italia (il Mezzogiorno) che a metà dell’Ottocento era economicamente avanti nell’ambito dei numerosi Stati preunitari italiani (1).
In particolare Pedio, oltre a trattare con ampie e documentate ricerche gli evidenti livelli tecnologici e produttivi raggiunti dall’industria tessile e metalmeccanica, aveva rivolto le proprie attenzioni di studioso serio e appassionato al commercio via mare e alla Marina mercantile del Regno(2).
I rapporti commerciali della prima metà dell’Ottocento non erano limitati agli Stati preunitari della penisola, ma avvenivano anche con i maggiori Stati europei e le Americhe. Le maggiori produzioni industriali del Regno comportavano l’esigenza di importare dall’Inghilterra quantità sempre maggiori di ferro, stagno, rame, carbone e dalla Francia fibre per un’industria tessile che a partire dagli anni Trenta assumeva una valenza significativa e tecnologicamente avanzata. Importazioni ed esportazioni, tranne che per gli Stati preunitari italiani molto vicini, avvengono quasi totalmente via mare. Dal 1838 al 1855 la bilancia commerciale resta passiva con Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Granducato di Toscana, lo diventa dal 1847 con l’Olanda, risulta invece attiva negli scambi con Austria, Regno di Sardegna e Stato Pontificio.
Il Governo borbonico favorisce con incentivi mirati lo sviluppo di una flotta mercantile capace di importare merci dal 1838 al 1855 per un valore di quasi 89 milioni di ducati(3 )con un notevole incremento dell’economia del Regno. Dati che sembrano non interessare la storiografia ufficiale, nemmeno quando Carlo Perfetto nel 1923 scrive “Le vicende della Marina Mercantile a vapore del reame di Napoli”, Achille Salzano pubblica l’anno successivo “La Marina Borbonica”, Gennaro Maria Monti edita nel 1934 “La marina Borbonica” e nel 1936 “Lo sviluppo della Marina Mercantile Napoletana”. Nessuna considerazione riceve nel 1954 la monografia di Cisternino e Porcaro “La Marina Mercantile Napoletana dal XVI al XIX secolo” 4.
Queste opere, che ripropongono una gloriosa pagina di storia mercantile e commerciale preunitaria, sono ritenute assurdamente tese a sviluppare anacronistici sentimenti anti-unitari in un’Italia ormai divisa in cui si ripropone drammaticamente la Questione Meridionale e laddove il divario nord-sud appare enormemente accresciuto. È proprio in questa «rimozione ossessiva», che tende a denigrare e a oscurare «tutto quello che è fuori del solco risorgimentale-sabaudo», che lo scrittore Pino Aprile, presidente del Movimento meridionalista per l’Equità Territoriale, ravvede la prova della disunità d’Italia nel suo ultimo testo “L’Italia è finita” 5.
Restano i dati dell’incremento della flotta mercantile, del commercio estero, dell’economia in genere. Dati pubblicati dal Ministero degli Interni negli “Annali Civili del Regno delle Due Sicilie”, stampati a Napoli nello stabilimento tipografico del Real Albergo dei Poveri6.
Le imbarcazioni presenti “al di qua dal Faro” al 1° gennaio 1819 risultano 2385, il 55% delle quali nella circoscrizione marittima di Napoli e il 20% in quella delle coste pugliesi. Nel 1833 le imbarcazioni risultano 3283, il 75% delle quali impegnate nella pesca e nel piccolo cabotaggio. Delle 889 utilizzate per il commercio estero solo 262 superano le 200 tonnellate. A distanza di un quinquennio, nel 1838, la flotta mercantile risulta più che raddoppiata con 6803 imbarcazioni delle quali solo 183 (2,68%) costruite e armate in cantieri navali esteri.
Il 46% delle imbarcazioni esistenti al 31 dicembre 1838 sono state costruite e armate nei cantieri navali di Napoli, Torre del Greco, Castellammare di Stabia, il 10% nei cantieri della Terra di Bari (Molfetta, Trani, Barletta, Bari… ), 339 nei cantieri della costa reggina (Reggio, Villa San Giovanni, Gallico, Bagnara, Scilla, Cannitello, Catona… ).
Nel quinquennio 1834-1838, oltre Napoli, particolarmente attivi nella produzione di imbarcazioni risultano i cantieri navali di Procida (98), Sorrento-Meta-Piano (41), Amalfi (44). Nello stesso periodo risultano attivi piccoli e medi cantieri lungo tutte le coste continentali del Regno: Gaeta (17), Resina (14), Vietri-Salerno (14), Acciaroli, Palinuro, Pisciotta nel Cilento, Fiumefreddo (14), Trebisacce (16), Brindisi, Manfredonia (16). Persino sull’estrema punta del Gargano, a Vieste, vengono costruite e armate 9 imbarcazioni in un nuovo cantiere navale.
Il forte incremento della flotta mercantile nel quinquennio 1834-38 è dovuto al notevole sviluppo industriale messo in atto dal Governo borbonico e alla forte produttività agricola, che alimentano il commercio estero e gli scambi interni. Nel 1852 le imbarcazioni della flotta mercantile raggiungono le 8884 unità per un tonnellaggio pari a 204 mila tonnellate e nel dicembre del 1860 il numero di 9848 bastimenti per 260 mila tonnellate, nonostante le requisizioni da parte del Governo dittatoriale garibaldino7.
Gli studi di Lamberto Radogna8, che confermano i dati fin qui esposti, sono importanti perché vanno oltre la fine del Regno delle Due Sicilie e attestano amaramente la decadenza della flotta mercantile napoletana nell’ultimo trentennio del XIX secolo sotto la dinastia dei Savoia: a fine secolo, nei dipartimenti marittimi della Campania, le imbarcazioni a vela si erano ridotte da 3963 a 1180, mentre nel dipartimento di Napoli i piroscafi a vapore già nel 1864 si erano ridotti da 22 a 16 dimezzando il tonnellaggio, laddove a Genova erano cresciuti a 116 unità9.
Alida Clemente ne “Le comunicazioni via mare” 10, parla di una marina a vapore del Mezzogiorno che sarà «marginalizzata da scelte politiche centrali»11 del nuovo Stato unitario, citando peraltro il recente testo di Luigi De Matteo12.