I SOLDI
SUDONLINE
11
L'allarme dell'organizzazione mondiale
del lavoro: 25 milioni di disoccupati
Sulle ripercussioni economiche del Covid-19 fa discutere oggi il rapporto dell’Organizzazione mondiale del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi), in cui si afferma che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro, andando ad aggravare un settore dove nel 2019 già si contavano 188 milioni di disoccupati nel mondo. Un numero superiore a quello che si verificò dopo la crisi economica del 2008 e che comportò una crescita dei disoccupati mondiali di 22 milioni di unità. “I comparti più toccati saranno il turismo, i trasporti ma anche l’industria dell’automobile”, dice Guy Ryder, direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. “Sarà un crash-test di proporzioni inquietanti, ben peggiore di quello del 2008”. E saranno le economie occidentali quelle più funestate dalla crisi, con una perdita di guadagni che si prevede sfiorerà i 3100 miliardi di euro entro la fine del 2020. Questa pauperizzazione generalizzata si tradurrà su un’importante diminuzione di consumi e servizi, che a sua volta impatterà sulle imprese e sulle economie nazionali.
studi della CGIA ha stimato come si ripartiscono a livello regionale i 78,5 miliardi di euro di fatturato in nero all’anno prodotto da questi lavoratori abusivi. A livello territoriale la situazione più critica si presenta nel Mezzogiorno. A fronte di poco più di 1.250.000 occupati irregolari (pari al 38 per cento del totale nazionale), nel Sud il valore aggiunto generato dall’economia sommersa è pari a 26,8 miliardi di euro, pari al 34 per cento del dato nazionale. La realtà meno investita dal fenomeno è il Nordest: il valore aggiunto prodotto dal sommerso è pari a 14,8 miliardi di euro.
Come si è detto, a rimetterci non sono solo le casse dell’erario, ma anche le tantissime attività produttive e dei servizi, le imprese artigianali e quelle commerciali che, spesso, subiscono la concorrenza sleale di questi soggetti.
I lavoratori in nero, infatti, non essendo sottoposti ai contributi previdenziali, a quelli assicurativi e a quelli fiscali consentono alle imprese dove prestano servizio – o a loro stessi, se operano sul mercato come falsi lavoratori autonomi – di beneficiare di un costo del lavoro molto inferiore e, conseguentemente, di praticare un prezzo finale del prodotto/servizio molto contenuto. Condizioni, ovviamente, che chi rispetta le disposizioni previste dalla legge non è in grado di offrire.
Oltre 3 milioni di persone, dicevamo, costituiti prevalentemente da lavoratori dipendenti che fanno il secondo/terzo lavoro, da cassaintegrati o pensionati che arrotondano le magre entrate o da disoccupati che in attesa di rientrare nel mercato del lavoro sopravvivono grazie ai proventi riconducibili a un’attività irregolare.
Campania, Calabria e Sicilia sono le realtà dove il lavoro nero è più diffuso; oasi felici Aosta, Veneto e Bolzano
A livello territoriale sono le regioni del Mezzogiorno ad essere maggiormente interessate dall’abusivismo e dal lavoro nero. Secondo le stime dell’Istat relative al 2017 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili), in Calabria il tasso di irregolarità 3 è pari al 21,6 per cento (136.400 irregolari), in Campania al 19,8 per cento (370.900 lavoratori in nero), in Sicilia al 19,4 per cento (296.300), in Puglia al 16,6 per cento (229.200) e nel Lazio al 15,9 per cento (428.100). La media nazionale è pari al 13,1 per cento.
Le situazioni più virtuose, invece, si registrano nel Nordest. Se in Emilia Romagna il tasso di irregolarità è al 10,1 per cento (216.200 irregolari), in Valle d’Aosta è al 9,3 per cento (5.700), in Veneto al 9,1 per cento (206.500) e nella Provincia autonoma di Bolzano si attesta al 9 per cento (26.400).