La pubblica amministrazione fa i conti con l’emergenza del coronavirus. E tenta di accelerare sul fronte dello smart working. Ovvero, cercando di spingere gli statali a lavorare da casa. Ma è una vera e propria corsa ad ostacoli. E le difficoltà sono tante. Soprattutto perché fino ad ora la burocrazia italiana non ha mai affrontato con serietà questo tema. La circolare del ministro per la Pubblica amministrazione Fabiana Dadone 1/2020, diffusa qualche giorno fa dispone espressamente, infatti, che col dl 9/2020 (il secondo decreto sull’emergenza Coronavirus) «è superato il regime sperimentale dell’obbligo per le amministrazioni di adottare misure organizzative per il ricorso a nuove modalità spaziotemporali di svolgimento della prestazione lavorativa con la conseguenza che la misura opera a regime».
In realtà si tratta di norme che sono vigenti dall’agosto del 2015, quando entrò in vigore la legge124/2015, la legge-delega di alcune delle riforme Madia. Era già previsto l’obbligo per le p.a. di adottare misure organizzative per il lavoro agile e a fissare obiettivi annuali per giungere, entro tre anni, ad almeno il 10% dei dipendenti che lo richiedano di avvalersi di tali modalità.
Dal 2018 i datori di lavoro pubblici avrebbero dovuto spianare la strada al lavoro agile e un 10% circa dei lavoratori (quindi, circa 300 mila lavoratori) avrebbero dovuto avere l’opportunità di avvalersi di tale sistema. Ma si sono già accumulati ritardi. Anche perché lo stesso provvedimento prevedeva che la via verso lo smart working si dovesse intraprendere «nei limiti delle risorse di bilancio disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica»
Alla questione finanziaria si sono aggiunti i limiti tecnici ed organizzativi. Così, ad eccezione di qualche test, lo smart working è di fatto sconosciuto nella pubblica amministrazione.
La circolare detta, quindi, alcune misure specifiche per incentivare le amministrazioni ad attivare lo smart working.
1) Avvalersi del lavoro agile come forma più evoluta anche di flessibilità di svolgimento della prestazione lavorativa, superando progressivamente il telelavoro.
2) Spingere per l’utilizzo di soluzioni applicative nel «cloud», consentendo l’accesso condiviso a dati, informazioni e documenti.
3) Allargare il ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni e incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference).
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Le norme avrebbero dovuto essere attive già da qualche anno con l'obiettivo di avere 300mila lavoratori collegati da remoto. Ma tutto è rimasto fermo...
La circolare della ministra Dadone spinge per il lavoro a distanza con l'obiettivo di fronteggiare l'emergenza coronavirus. Ma non mancano i problemi, sia organizzativi che finanziari
smart
working negli
uffici pubblici