guita poco dopo e collocata proprio presso il Santo Sepolcro: quella delle Stigmate di San Francesco. Che fine ha fatto questa tavola “al olio” così lodata e così
misteriosa, rapidamente scomparsa nel nulla? Nessuna guida, dopo quella del
1514, ne fa più cenno. Un’opera quindi troppo presto perduta e perché? Forse
la sua collocazione in un ambiente così limitato, a contatto diretto dei pellegrini
che si accalcavano nell’umile cella, le dovette ben presto provocare seri danni,
accentuati dal fumo delle indispensabili candele o torce e dovette venir spostata
se non addirittura soppressa. Forse l’esser situata in un angusto vano oscuro
consigliò di trasferirla in un altro più luminoso per meglio apprezzarla e conservarla. Forse ancora venne irrimediabilmente rovinata nell’ottobre del 1518 nel
corso del tentativo di sollevazione contro Varallo da parte degli uomini dell’alta
valle, che non essendo riusciti a sorprendere i Varallesi, si sfogarono contro il
Sacro Monte “in devastando picturas, effigies et imagines...”. Fondamentale resta
dunque la guida del 1514 per conoscere in modo assai dettagliato la situazione
del Santo Sepolcro nel primo ventennio del Cinquecento. Al contrario le guide
del 1566 e 1570 nella parte in versi sono assai sbrigative nel trattare della cella
funeraria, limitandosi a riferire in soli quattro versi che il Sepolcro “tien la misura di quel di Terra Santa” e che il “Christo in sepoltura” è affiancato da due
angeli.
Nella premessa in prosa viene invece riconosciuta a Gaudenzio la statua lignea del Cristo giacente.
Nulla cambia nelle successive guide del tardo Cinquecento. All’inizio del
Seicento il vescovo Bascapè raccomanda di aprire uno sfiato nella cella per far
defluire il fumo e di usare fiaccole alimentate unicamente con olio di oliva.
Nel 1671 il Fassola si sofferma a riportare la scritta scolpita sull’architrave del
basso ingresso e ad evidenziare che non si può vedere il Cristo deposto se non
“con lumi accesi”. Afferma quindi che tanto la statua del Cristo che i due angeli
sono opera di Gaudenzio “benche di legno, e venerabili per le sue qualità”. Ricorda in fine che “nel cantone dell’uscio piccolo, per il quale s’entra, S. Carlo
Borromeo spendeva più delle sue fiate in orazione”, ossia nell’angolo sinistro
dell’angusto ambiente. Notizia poi ripresa in quasi tutte le successive guide del
Sacro Monte.
Poco dopo il Torrotti ripete le stesse notizie, seguito poi da numerose guide
del Settecento e del primo Ottocento. Il Bordiga (1830) specifica per la prima
volta che il Cristo “giace difeso da vetri”, ossia è protetto entro un’urna, ma non
fa più il nome di Gaudenzio né per la statua né per i due angioletti reggenti la
corona di spine ed i chiodi, mentre lo torna a ripetere la guida del 1843.
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