20 luglio 1944, ore 12.00. Rastenburg, Prussia Orientale.
Quando riprese i sensi, Fabian Von Spee si ritrovò in una stanza dal sapore nostalgico e magico allo stesso tempo. Qualcuno aveva chiuso la finestra e non vi erano più giochi di luce e
lame dorate a saettare per la stanza ma la collezione sterminata di orologi, ben disposta come se fosse messa in mostra
per un’esposizione d’arte, era un trionfo alla perfezione e un
omaggio al passato e all’innovazione al tempo stesso.
Fabian trattenne a stento un conato di vomito. La testa gli
doleva e dovette emettere involontariamente un mugugno,
perché qualcuno sembrò accorgersene dall’altra stanza: passi si avvicinarono senza mostrare alcuna forma.
Un occhio iniziò a lacrimargli, e la tempia prese a pulsare
come se qualcuno stesse percuotendo una grancassa dentro al suo orecchio. Cercò di scorgere qualcosa intorno a lui
da afferrare per difendersi, ma appena cercò di muovere le
mani comprese che erano legate dietro la schiena. E si trovava seduto praticamente nello stesso punto in cui aveva perso i sensi.
La figura minuta e snella che il capitano aveva intravisto prima di essere colpito entrò nella stanza.
Era un uomo sui trent’anni, dall’apparente aspetto mite e un
viso anonimo, sbarbato e con corti capelli biondi; indossava
un completo elegante grigio chiaro, a lisca di pesce, con aggiunta di panciotto; ai piedi spiccavano due scarpe lucide di
vernice.
L’uomo sorrise e si avvicinò.
Fabian avrebbe voluto parlare ma la lingua gli sembrò appiccicata al palato, arido come il deserto.
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