Alle spalle dell’uomo ne comparve un altro, con soprabito
scuro e cappello nero, simile nell’abbigliamento a colui che
il capitano aveva freddato in strada. Non aveva avuto modo
e tempo di soffermarsi a guardare l’uomo della Gestapo che
aveva ucciso, ma avrebbe potuto essere la stessa persona
per quanto si assomigliassero.
- Non abbiamo tempo per interrogarlo. - asserì l’agente della Gestapo.
L’altro uomo si limitò a fissarlo sornione, un vago accenno di
sorriso.
- Devo scortarla dal Führer. - insistette il primo. - Adesso.- Non dovresti essere qui. - disse invece l’ometto minuto rivolto a Fabian.
Il capitano lo squadrò nuovamente da capo a piedi, sembrava innocuo come un insegnante e insignificante al pari di un
passacarte, eppure una strana luce bianca brillava nei suoi
occhi grandi e azzurri; vi era un barlume di irrequieta curiosità con una vena malinconica.
Fabian rimase in silenzio a fissarlo: quel viso ora gli parve in
qualche modo familiare, senza riuscire a coglierne il perché.
- Puoi chiamarmi Karl. - continuò l’ometto.
- Oppure orologiaio. - ribatté Fabian di getto.
L’agente della Gestapo estrasse dal soprabito nero una Walter PPK e mise il colpo in canna azionando il carrello.
- Per cortesia, Füller. - disse l’orologiaio, senza staccare gli
occhi di dosso dal capitano seduto contro la parete.
A Fabian sembrò che anche lui lo squadrasse alla ricerca di
un ricordo, come quando si incontra qualcuno e si è convinti
di averlo già visto ma non si ricordano le circostanze.
- Se proprio deve interrogarlo, - sbuffò Füller - gli faccia al-
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