Mi osservai cadere nel cesto e poi rotolare insieme al cesto
giù dal patibolo, in uno strano capitombolo che strappò agli
astanti un verso strozzato. Qualcuno rideva.
E forse fu a causa del rimanere in bilico tra la vita e la morte,
in quegli ultimi attimi di coscienza, che la transizione s’inceppò. E affiorarono i ricordi della mia prima vita…
Mi ritrovai immerso in una notte insondabile, con un cielo
nero come la pece e la luna maculata di rosso. Camminavo
baldanzoso tra le calli della mia Venezia. Era il cinque novembre del 1571. Mi chiamavo Tiziano Venier, ero di nobili
natali e, dopo una breve vita dissoluta e piena, avevo ceduto
all’ardore patriottico. Da poco ero tornato incolume e vincitore dalla battaglia di Lepanto. Così le poche porte che ancora mi erano state precluse si erano aperte, dandomi ancor
più fama e ricchezza. Nessuno ostacolo avrebbe potuto intralciarmi; nell’incedere fiero e altezzoso non avrei ceduto il
passo nemmeno al doge da quanto ero supponente.
L’uomo che mi si parò davanti quella notte era avvolto da
una cappa nera, il volto in ombra e un contegno sussiegoso
pari al mio. Avevo già messo mano alla spada per questioni
d’onore e non avevo intenzione di disattendere le speranze
di quell’arrogante avventore.
Dall’oscurità delle calli comparvero però altre cappe nere,
almeno quattro. Era un’imboscata!
Non sapevo chi potesse aver mandato quei sicari, ma mi ero
fatto molti nemici. La schermaglia fu impari e veloce. In breve mi ritrovai a terra con squarci scarlatti che sgorgavano
dal busto come infiorescenze appena sbocciate.
Fu dopo che i sicari se ne andarono, credendomi morto, che
emerse dalla tenebra un’altra figura. Aveva contorni indefiniti, più nera del nero che ci attorniava. Si chinò su di me, il
46