- Presto verranno a prenderci - rispose Lavosier con noncuranza.
Ora che gli occhi sembravano essersi adattati alla penombra, seguii le sue labbra pronunciare quella frase definitiva e colma di rassegnazione: labbra screpolate ed esangui,
grottesche quanto la parrucca sporca e arruffata che ancora
portava sul capo.
Mi resi conto solo in quel momento che per lui non avevo
mai fatto nulla. Avevamo condiviso mesi di prigionia, ed io
sempre a lamentarmi, a piangere e disperare, a cercare nelle sue parole uno spiraglio di speranza, un alito di vita, perché sentivo che la mia sarebbe presto giunta alla fine. Volevo
aggrapparmi a ogni momento. Volevo sopravvivere. La sua
generosità era disinteressata, pura ed io me ne nutrivo per
non impazzire.
Sentii il costato pulsare e lo stomaco largo e gonfio come
una voragine, vuoto al pari del residuo di speranza rimasto
in bilico sull’ultima rivelazione del mio amico.
E non tardarono ad arrivare. Due uomini varcarono la cella,
con i loro buffi berretti frigi e le coccarde in vista; con i moschetti spianati e le facce luride, colme di livore e soddisfatte
di essere finalmente dall’altra parte della barricata.
La consapevolezza della morte mi lasciò senza respiro.
- Prendiamo prima quello - disse uno dei due, il più basso
con un viso porcino e un ghigno irriverente. Indicò Lavosier.
I pensieri indugiarono sul destino della mia famiglia. Temevo per la vita di mia moglie e del futuro riservato ai miei
due figli. Loro almeno erano fuggiti in tempo, ma non avevo
avuto più notizie dalla nostra separazione. Come si poteva
ancora nutrire una qualche speranza? La rivoluzione, nata
da giuste necessità, era divenuta un teatrino osceno dove
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