Mi svegliai stanco e affamato. Sbattei le palpebre diverse volte prima di mettere a fuoco la vista annebbiata e, solo dopo
parecchi tentativi, riuscii a fendere le ombre scure che addensavano quel luogo ignoto.
Mura di pietra umide e irregolari scorrevano da destra a sinistra, dall’alto verso il basso, tutte intorno a me; mura di
una prigione. La percezione di essere Maximilian Volke mi
abbandonò in una scia opalescente, simile all’ombra sfuggente di un fantasma.
La transizione arrivò più lentamente questa volta, ma percepivo la nuova linfa premere per la supremazia. Ero in uno
stato di apparente torpore.
Mi guardai le mani e non le riconobbi: sottili, quasi effeminate, le unghie leggermente lunghe e le nocche rosate; mani
che non avevano mai faticato, ma sudice. Polsini a sbuffo di
seta ricamata adornavano i miei polsi delicati.
I morsi della fame presero il sopravvento. Per un momento
vi fu solo oscurità e dolore. Quando mi ripresi da quelle fitte
lancinanti allo stomaco, il tribolante passaggio di consegne
divenne incalzante e aprii gli occhi, come se fosse la prima
volta. Il risveglio dopo un brutto sogno: l’incubo di un’esistenza segnata.
Le immagini si accavallarono, suoni armoniosi conciliarono
la transizione e, finalmente, fui pervaso dalla reminiscenza.
Era il sette maggio del 1794 e mi chiamavo Philippe de La
Fontaine.
Cercai di alzarmi in piedi, ma ero troppo debole.
Colsi un bisbiglio nell’oscurità. Non ero solo nella prigione.
Dalle sbarre in alto a destra filtrava una pallida luce lunare
che donava a quel luogo di mestizia e sofferenza un alone
spettrale. La voce roca rivolta a me avrebbe potuto essere
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