dovevamo difendere.
La mia mente s’incrinò, fenditure oscure si diramarono lungo le pareti di questa nuova e fragile esistenza. Il sangue mi
riempì la bocca dopo l’impatto di due proiettili da 13 mm:
avevano bucato la cabina, sibilanti come serpenti a sonagli,
infidi e letali.
La cappa di vetro iniziò a scricchiolare e una ragnatela di crepe si ramificò sulla goccia in procinto di cedere. Il gusto del
sangue divenne un aroma surreale dal sapore antico, quasi
confortante.
L’aria fu risucchiata all’interno dell’abitacolo quando il vetro
si frantumò in un’esplosione roboante, e poi venni a contatto con il cielo, come se fossi un tutt’uno con esso.
Gramaglie di velluto nero calarono sul sepolcro della mia
ipocrisia: potevo essere dispiaciuto per una morte che pur
vivendo non mi apparteneva?
Poco prima della morte, quando la nuova transizione non si
palesava ancora e l’anima soffriva di una condizione duplice
e innaturale, potevo percepire chiaramente di essere solo di
passaggio.
Un misero destino che non mi faceva godere di molte vite e
mi appagava di infinite morti. Peccato che si trattava di solo
pochi attimi, non sufficienti per far riemergere il mio vero io
dormiente.
Mentre a stento resistevo, per ritardare il calare definitivo
del sipario, boccheggiante armeggiai sui comandi nel vano
tentativo di non far precipitare l’apparecchio.
Prima dell’inevitabile oblio, riconobbi la familiare sinfonia
dei cannoni da 30 mm dei camerati rendermi parziale giustizia.
Buio, luce, buio, luce. Intermittenza.
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