ra, lunghe e affilate come lance, gli erano penetrate nella carne,
straziandola in svariati punti. Arrak si alzò spezzando gli spuntoni di roccia che lo tenevano inchiodato al suolo, se li strappò ruggendo dalle carni e le ferite iniziarono a rimarginarsi. Le
ossa della schiena spezzate, con sua meraviglia si risaldarono
velocemente, mettendolo subito in piedi. Accanto a lui, la sua
daga giaceva piantata nella scogliera con ancora il braccio destro
attaccato. Raccolse l’arto e lo mise a contatto con il moncherino. Sentì un incredibile dolore, le ossa e i tendini si cercavano e
si ricollegavano con carne e vene che si risaldavano bruciando
come l’inferno. Poco dopo riuscì a muovere di nuovo la mano
e il braccio destro che non mostrava nemmeno più i segni del
taglio. La caduta avrebbe dovuto ucciderlo, qualsiasi fosse stata la benedizione di Morte, lo aveva reso più forte. Alzando gli
occhi vide i guerrieri dei Lupi che lo osservavano con Janara in
testa. Avanzò verso di loro e anche lui fu acclamato come un
grande guerriero. La sera, intorno ai fuochi dell’accampamento
che prepararono fuori città, sentì di come Janara e Nezor fossero scappati in tempo dalla torre e di come ebbero guidato i Lupi
restanti in salvo, combattendo contro le Furie prima dell’esplosione. Nezor raccontò anche di come avesse schiantato il collo
del Re di Radiaterra, atterrando con i piedi sulla sua gola dopo
una grande caduta. Di Ashtur si poteva solo immaginare il fato,
morto nel vano tentativo di essere un Dio. Quando le otri di liquori furono vuote, a tarda notte, Arrak e Janara si tovarono da
soli sulla sommità di una duna ad osservare le stelle, mentre il
fuoco del falò moriva. Una vena di nostalgia solcava il viso del
Caduto che pensava al suo regno scomparso. Janara comprese
il suo dolore e non dissero niente per parecchio tempo, dopo
essersi osservati con reciproco rispetto guerriero si amarono di
una passione feroce, consumando il resto della notte nella loro
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