ai bordi di quella muraglia, gli adulti proseguivano a testa bassa verso casa. Erano in pochi quelli che si fermavano, e tutti per
rimproverarci e dire che era pericoloso stare sul ciglio. Eppure
mio padre lo aveva detto: c’ era stato un tempo in cui l’ interesse per il diverso era più vivo che mai; individui di ogni età
si fermavano all’ ombra degli alberi, a discuterne il mistero; il
luogo era diventato meta di gite scolastiche. Erano nate persino
sette dedite al culto della sostanza. Poi l’ interesse era scemato e
l’ aumento della produttività dovuto a nuove, esaltanti scoperte scientifiche aveva alterato i ritmi e le abitudini degli esseri in
potenza. Adesso quello era chiamato il Golgo: confine naturale
del mondo, nulla più di uno scorcio di paesaggio; Sinonimo di
morte e sconfitta, come ogni confine.
Sapevamo di doverci tenere alla larga dal margine, ma era più
forte di noi. Non riuscivamo a starne lontani a lungo, proprio
come una droga. Anni dopo capii perché, arrivando ad identificare l’ istante preciso della nostra assuefazione: eravamo di ritorno dalla scuola io, Biff, Joje e i fratelli Cend, e una brutta tempesta ci faceva camminare in fila indiana, a ridosso delle case.
Sentimmo uno schianto sordo in lontananza, e ci mettemmo a
correre nonostante il vento forte. Una folata più violenta delle
altre aveva divelto un traliccio dalla sua base. Il palo della luce si
era abbattuto su alcuni cilindri, facendone spargere il contenuto
sull’ asfalto bagnato. Fu la prima volta che vedemmo il diverso,
che ne sentimmo l’ odore. L’ odore! Era quello ad attrarci come
chiodi ad una calamita; lo stesso aroma pungente che fece storcere il naso a due passanti, a noi pareva il concentrato di tutte
le meraviglie esistenti. L’ incanto durò poco, perché una zelante
squadriglia di soldati, con tanto di guanti protettivi e maschere
antigas, arrivò a tamponare l’ incidente. Ci mandarono via in
malo modo, dicendo che quello non era posto per marmocchi.
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