sensazione di pace conseguente al trattamento era sempre
più forte, ma al contempo la curiosità di scoprire cosa
avvenisse nelle ventiquattro ore diventava ogni volta più
impellente. Era ormai dipendente dall’Incubatrice, per
quanto provasse a negarselo e a razionalizzare. In quel luogo
avveniva qualcosa di strano, come se si lacerasse il velo
della realtà; ogni volta, lo smarrimento al risveglio era più
forte e duraturo, sebbene mascherato dalla potente cascata
di endorfine, probabilmente amplificato da queste ultime.
Aveva letto l’antica favola cinese dell’imperatore che sognava
di essere una farfalla, e cominciò a insinuarsi in lui lo stesso
dubbio dell’aneddoto zen: si chiedeva quale fosse ormai la
sua vera vita, se Guillaume Maher non fosse il personaggio
che occupava le pause nell’esistenza di quello che era dentro
la macchina.
Un giorno, dopo quasi un anno di frequenza in agenzia, seppe
la verità.
Ormai flashbacks dell’esperienza dentro l’Incubatrice si
affacciavano dentro i suoi sogni o nei suoi stati di veglia
alterati da eccitanti. Frammenti di lingue sconosciute
attraversavano i suoi pensieri. Non era più come le prime
volte, di cui non aveva nessuna memoria, sembrava che a
livello subconscio si fossero stratificate le percezioni vissute
in quello stato particolare creato dalla macchina.
Non fu Maher a ricordare quello che viveva nel mondo di
finzione, fu Ulisse a ricordare di essere Maher, mentre la
tempesta flagellava le sue navi tra Scilla e Cariddi, Poseidone
infuriato puniva l’arroganza del re di Itaca. L’eroe capì che
le esperienze di quell’uomo che parlava una strana lingua e
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