di paura, avrebbe voluto accasciarsi a terra e piangere la
sua imminente morte. Invece strinse il giavellotto e iniziò
a correre. Sfrecciava come un purosangue; in tutte le sue
battaglie, e ne aveva combattute a migliaia, nessun arciere
riuscì mai a colpirlo. Non importava quanto peso portasse,
lui era inarrestabile. Ma qualcosa che saettava più veloce di
lui c’era: il suo sangue.
Lo sentiva bucargli le tempie, scavargli le braccia possenti,
sentiva come se gli occhi gli esplodessero da un momento
all’altro. E più galoppava più tutto il suo organismo voleva
scappare, conscio della sua sorte.
Infiammò l’arma con un incantesimo. Ora distava dal Re
pochi metri e gli parve di vederlo sorridere.
Caricò il giavellotto e, sulla punta, ci infilzò il suo cuore
con tutte le sue preoccupazioni e timori, voleva spedirlo
lontano. Ma non poté. Il suo piede affondò in una buca con
enormi spuntoni che foravano il terreno e che bucarono il
piede destro del cavaliere d’oro. Perse l’equilibrio, s’accasciò
in avanti. Ebbe appena il tempo di alzare il viso che il suo
avversario era piovuto su di lui. Lo scudo gli schiantò il cranio.
Trentadue quadretti bianchi furono l’ultima cosa che vide,
trentadue zanne sporche di un sangue che il tempo aveva
solo in parte lavato. Tutto quello che rimaneva era un sibilo
che echeggiava nel vuoto.
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