Rivista Cultura Oltre 7^ e 8^ numero - LUGLIO - AGOSTO 2018 rivista-cultura-oltre LUGLIO AGOSTO 2018 | Page 6
“La festa patronale” di Maria Rosaria Teni
Erano i primi anni ’70. I rigurgiti del Sessantotto erano ancora palpitanti e gli eventi
drammatici che tutti conosciamo avevano già cominciato a scuotere la nostra penisola,
eternamente divisa, perennemente sospesa tra sete di giustizia e voglia di riscatto, nel
vano tentativo di affrancarsi da sudditanze secolari e umilianti.
Da poco rientrati nel piccolo paese del Sud Italia, dopo una lunga permanenza nella
capitale lombarda, la Milano accogliente e promettente di tanti anni fa, eravamo, io e
mio fratello, due adolescenti ben educati e assai spaesati, disorientati nell’impatto con
il paese d’origine che, in realtà, non avevamo ancora conosciuto. Il nostro viaggio a
Milano era cominciato infatti otto anni prima quando, ancora piccoli, non avevamo
avuto il tempo di mettere radici nel paese natio, per cui il nostro paese era rappresentato
dalla città meneghina che ci aveva accolto e assecondato, contribuendo alla nostra
crescita. Come potevo dunque reagire, una volta lasciato l’ambiente in cui mi ero
mossa fino ad allora e in cui avevo ormai creato la mia rete di relazioni e di abitudini?
Un naturale rifiuto seguito da una sottile diffidenza ha accompagnato i primi giorni del
nostro arrivo nel mio paese d’origine. Lentamente prendevo consapevolezza delle
caratteristiche totalmente differenti, cui avrei dovuto abituarmi e con cui avrei dovuto
convivere: strade solitarie e assolate, nei pomeriggi d’estate interminabili e afosi, e
inverni brevi, soleggiati e allietati da tramontane civettuole, ma senza un fiocco di
neve! Nel Sud la neve è un evento! Che differenza con le belle nevicate che, durante
le vacanze di Natale, imbiancavano i campetti dove i bimbi del quartiere si riunivano
per costruire tronfi pupazzoni di neve, armati di sciarpe e cappelli e di immancabili
carote a mo’ di naso!
Per non parlare del fastidioso imbarazzo negli incontri con i compaesani che
chiedevano a noi, ormai ragazzi, l’età, la provenienza, l’appartenenza… Eh sì, in ogni
paese che vai è consuetudine la domanda: «Di chi sei figlio?» oppure «Quanti anni
hai?» o ancora «Tutto tuo padre» o «Hai preso tutto da tua madre!». Cicalecci palesi o
sotterranei; occhi che osservano da dietro finestre semichiuse, protesi a scrutare,
annotare, commentare.
Una delle prime novità, che poi ha caratterizzato tutta la mia vita a seguire, è stata
rappresentata dalla festa patronale che nel mio paese si celebra la terza domenica di
luglio: Festa della Madonna del Pane. Un pullulare di bancarelle, palloni e giocattoli
issati su corde e traballanti al minimo soffio di brezza calda e delicata, mandorle dolci
dal profumo inebriante, suoni, tanti, da ogni parte. I suoni della banda, riunita nella
cassarmonica, un’impalcatura luminosa che termina con una cupola e ha un palco
circolare che ospita i musicisti, inviolabile e sontuosa; i suoni dei giostrai che
echeggiano da una parte all’altra delle vie popolate da giovani e meno giovani vestiti
nei loro abiti a festa e con indosso sorrisi spensierati. Nei primi anni del mio ritorno in
paese ho odiato questa festa! La sentivo lontana, imposta, obbligata a vivere senza
sentirla effettivamente parte di me! Mia madre, nei dettami della tradizione e mettendo
a frutto le sue ottime qualità nel cucito, confezionava i nostri abiti per la festa. Essendo
la femminuccia di casa, l’abito era riccamente adornato di merletti e di tanta cura e
amore. Per me era una tortura! Un tormento indossare un abito che mi faceva sentire
goffa e inadeguata. Col tempo la mia cara mamma l’ha capito e mi ha lasciato in pace
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