Rassegna Stampa 4-48 PSYCHOSIS di S- KANE(ARVIGO CALVANI)doc07-03-2014-2.pdf Apr. 2014 | Page 58

Il testo 4:48 Psychosis, di Sara Kane, riporta alla mente dello spettatore la vicenda personale del suicidio dell’autrice. Un lungo lamento, culminante in una crisi – alle 4:48 – quando ormai tutto è perduto. E per non sbagliare – quasi a voler dimostrare al mondo che non si sta fingendo, come fanno le attricette di Hollywood – si va in overdose, ci si taglia le vene e ci si impicca. L’attrice Elena Arvigo tiene la scena con intensità e gioca su molteplici registri vocali per dare vita alle diverse sfumature del pensiero del personaggio. Perché, pur trattandosi di un monologo, si sentono oltre alla sua, le voci di tutti quei medici, di tutte quelle persone, che hanno cercato di aiutare la Kane. Ma non si può aiutare chi non vuole essere aiutato. La conseguenza è sprofondare, ininterrottamente, in un baratro di solitudine e nel desiderio di sparire, di annullarsi. È sempre difficile riuscire a rapportarsi con chi soffre interiormente – piuttosto che esteriormente. È facile compatire chi ha una gamba rotta. Le complicazioni nascono quando la sofferenza, la si porta dentro. E non a caso, nello spettacolo di Valentina Calvani, la scena è ingombra di quei resti che abitano la mente del personaggio. Specchi rotti, numeri del lotto, fotografie affollano lo spazio mentale e fisico dell’attrice, costringendola a rinchiudersi in un io che la rende infelice e dal quale non vorrebbe che scappare. I mostri peggiori sono nascosti nell’interiorità, ma nello spettacolo, gli stessi, sono esternati e resi visibili – su un palco dove lo spazio fisico per muoversi, pur trattandosi di un testo scritto per un unico personaggio, si restringe visibilmente. A volte, si avverte quasi un senso di soffocamento. Probabilmente qualsiasi intervento che vada oltre la semplicità di un corpo, una voce e pochi oggetti, stride con la pienezza del monologo. Se recitato bene – cosa che, infatti, avviene sul palco del Libero – non lascia spazio a nient’altro, perché qualsiasi intromissione si fa superflua. La sensazione finale è di un tempo dilatato: quell’attimo, le 4:48, amplificato fino a trasformarsi in un lunghissimo grido di disperazione che ci commuove tutti. Valeria Carbone 25 settembre 2012