abbandonarsi alle debolezze più disperate che sovrastano nell'ombra del
cuore e, come suggerisce la Kane, ci vuole sempre pronti però a dover
sopportare i pesi più dolorosi.
Basta vedere l'Arvigo la quale, man mano che acquisisce sempre di più
questa linearità tra pazzia e lucidità, non si limiterà solo a ironizzare sui
risvolti dei reperti visti con cinica risata da parte dei medici curanti, ma saprà
anche calibrare una rabbia a tratti con parole sottovoce ripetute di continuo
sino allo sfogo su di un muro, quel bisogno di amore tanto atteso.
Lei stessa inizierà questo viaggio dicendo “Cosa ho da offrire ai miei amici?”
mentre gira e rigira delle carte da poker di una misura più grande della
norma . Che sia il primo impatto davanti a un'autocommiserazione che passa
da una sedia all'altra? Il viaggio imperscrutabile cui ci fa partecipe l'attrice
passa per una stanza dove il tempo e lo spazio si diramano attraverso un
enorme massa di piccole pagine attaccate alle pareti dell'Argot Studio, una
cornice che ricalca la sofferenza quasi indecifrabile di questo testo con della
terra sparsa assieme a dei pezzi di vetro, delle palline bianche girate dalla
manovella di alcuni bussolotti come per i numeri della fortuna.
E non è un caso che in questa triste atmosfera ci capiterà di ascoltare come
sottofondo musicale la frase “I wanna be loved”.
Infatti la speranza di un amore e della non-rinuncia si realizza come su di un
volo tendente, quale compie l'Arvigo salendo sulla sedia ora al centro con la
luce affievolitasi. Per dire cosa poi?
Che il testamento di Sarah Kane è stato compiuto.
Da non perdere assolutamente.
Mauro Sole