Rapporto origini e garanzie materie prime VERSIONE DI SINTESI | Page 9
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occasioni, e per ben due volte nella prima decade degli anni 2000.
Peraltro con la seconda fase, caratterizzata da trend rialzisti per
tutte le principali commodities
che si è spinto oltre il primo decennio degli anni 2000.
Torniamo in Italia, per affrontare
il secondo punto basilare dell’analisi. L’Italia non è in grado di avere a disposizione molte – vedremo
quali – delle principali materie
prime. E, per supplire a questa carenza, è costretta a importare.
Le motivazioni che costringono a
entrare sul mercato sono variegate.
La prima, senza ombra di dubbio, è quella strutturale: non si
riescono a produrre quantitativi
sufficienti in grado di soddisfare
le esigenze del consumatore finale o dell’industria trasformatrice.
L’Italia, a livello di superfici agricole utilizzabili non è un grande
Paese. Secondo l’ultimo censimento Istat, ha a disposizione circa 12 milioni di ettari di superficie
agricola utilizzata, erano 18 milioni nel 1970 con una riduzione del
27%, mentre, contestualmente la
popolazione è passata da circa 55
a oltre 60 milioni di abitanti con
un incremento del 9%. La Cina, a
seconda delle statistiche, ha una
superficie agricola utilizzabile più
o meno dieci volte quella dell’Italia. La Russia ne ha molta di più.
Numeri che non mentono e che
portano la nostra agricoltura a
concentrarsi su alcune produzioni. Consapevoli del fatto che su
molte commodities difficilmente
si potrà fare la voce grossa.
A volte poi sono le stesse regole imposte dall’organizzazione
mondiale del commercio o dalla
politica comunitaria, solo per fare
due esempi vincolanti, a non permettere di produrre oltre certi li-
miti. Alcuni casi sono noti: il latte
bovino, per i quali l’imposizione
da parte dell’Unione Europea di
quote nazionali (termineranno
fra un biennio), non ha consentito
di andare oltre determinati quantitativi. O lo zucchero. Sottoposto
a una riforma che ha portato alla
chiusura di 15 stabilimenti su 19
in Italia, ha di fatto decimato il
settore e, a livello europeo, ha ridotto la produzione di diversi milioni di tonnellate, per fare spazio
all’entrata in Europa dello zucchero di canna, nel nome di accordi
d efiniti in ambito Wto, l’organizzazione mondiale del commercio,
appunto.
In alcuni casi poi si importa per
ragioni qualitative. È il caso di
prodotti fisiologicamente non
producibili in Italia, come banane o ananas, o di prodotti che in
altri Paesi hanno caratteristiche
superiori tali da essere preferiti a
quelli interni. L’esempio è meno
semplice, ma non certo raro.
Prendiamo i cosidetti frumenti di
forza (ad elevato tenore di proteine) che l’Italia fatica a produrre e
che l’industria della pasta importa con continuità, il più delle volte
dal Nord America.
Non da ultimo, si importa per questioni di costi. Il mercato non fa
sconti ed è evidente che qualsiasi
soggetto economico se è in grado
di rifornirsi a condizioni di prezzo
migliori fuori dai nostri confini, lo
fa. In questo caso gli esempi sono
talmente tanti che la loro citazione rimane un esercizio di stile. I
pomodori dalla Cina, gli oli nordafricani, i frumenti est-europei,
solo a titolo di conferma. Rimane,
ovviamente l’incognita delle garanzie qualitative e dei requisiti
minimi del prodotto importato.
Ma è un altro discorso. Che af-
fronteremo più avanti. Ora giova
ricordare in quali filiere l’Italia è
in grado di essere autosufficiente
e in quali, per converso, è fortemente deficitaria. Gli unici comparti in cui il nostro Paese produce più di quanto consuma sono
quelli del riso, della frutta fresca
e trasformata, del pomodoro e dei
suoi derivati, e quello del vino. In
tutti gli altri casi la soglia dell’autosufficienza non viene raggiunta.
La precisa analisi contenuta nel
rapporto scientifico esteso, fornisce i numeri della dipendenza,
attraverso il calcolo del grado di
auto approvvigionamento di vari
prodotti agricoli e agroalimentari. E con pochi numeri il quadro
è ben definito. Fra i cereali il frumento tenero ha un grado di auto
approvvigionamento del 41%,
quello duro del 70%, l’orzo del
63% e il mais dell’80%. Tutti decisamente sotto la soglia della parità produzione/consumo (100%).
Ancora più forte il deficit nei semi
oleosi: l’Italia riesce a produrre
solo il 29% del necessario, così
come è carente di oli di semi (33%).
Non cambia la situazione generale per i prodotti di origine animale. Se si esclude l’autosufficienza
del comparto avicolo (pollame),
le carni bovine arrivano al 77% di
auto approvvigionamento, le carni suine non trasformate al 59%,
il latte al 77% per poi scendere a
percentuali ancora inferiori nel
settore ittico. E da dove arrivano
le materie prime? Ormai da tutti i
Paesi, ma va registrato il sensibile incremento degli scambi commerciali con i mercati emergenti
(Cina, India, Turchia, Paesi sudamericani), mentre la crescita
appare molto più moderata con i
tradizionali partner dell’Unione
Europea, Stati Uniti e Giappone.