LUCE estratti LUCE 322_Calafiore_Conversazione con Pasquale Mari | Page 6

cinematografica intrattiene con la verosimiglianza implica un rigore forse ancora maggiore nella scelta delle fonti luminose e nell’economia del loro utilizzo, per poi consegnarle a quell’unico proiettore luminoso che ne garantisce la fruizione in sala. Io sono stato e mi considero tutt’ora anche un Proiezionista. Lo sono stato, perché mi occupavo io in sala della messa a fuoco e della qualità delle immagini che “investivano” la nostra scena e i nostri attori da tutti i lati, e mi considero tutt’ora tale perché le variazioni di luce in quel solo proiettore che fa lo spettacolo-cinema non sono che il distillato delle molte luci, naturali e artificiali, incontrate nel corso della lavorazione di un film. Mi viene in mente l’utilizzo che hai fatto della luce in Buongiorno, notte, un film di Marco Bellocchio sugli anni di piombo e il caso Moro; durante tutta la vicenda moltissimi sono i primi piani, in particolare quelli di Chiara, più volte illuminata con il solo ausilio di un cerchio sfocato di luce proveniente attraverso lo spioncino della porta del covo. Qui vediamo un suggestivo e ossessivo gioco di luce, ombre fluide e sfocature, che vanno a svelare lo sguardo, il volto, l’angoscia e le contraddizioni sempre crescenti in Chiara. Buongiorno, notte, al fianco di Bellocchio, è stato un viaggio a braccetto delle parole del titolo e dei versi che lo seguono nell’omonima poesia di Emily Dickinson, che raccontano il percorso di una giovane donna, e dei suoi occhi, tra i poli del giorno e della notte, che sono anche i termini profondamente umani, organici, analogici entro i quali si svolge il mio lavoro. Ho sentito quindi la sfida del film come qualcosa di decisivo. Da una parte le soggettive di Chiara/Maya Sansa, attraverso lo spioncino, nella cella di Moro a cercare un fuoco sfuggente e un colore che si accende e si sposta nel nero del fotogramma; dall’altra gli occhi stessi di Chiara, protagonisti oggettivi di primissimi piani che sono quanto di più commovente ho avuto la fortuna di incontrare davanti alla macchina da presa. Su tutti, quello che ritengo il migliore risultato della mia carriera di cineasta: il primo piano di Chiara che ascolta nel buio la lettura dell’ultima lettera del prigioniero alla famiglia. Ottenuto facendo emergere nella sottoesposizione dell’emulsione i contorni di un volto ormai privo di colore e affidando ai superstiti sali d’argento la “speranza” di quel tanto di luce da far brillare una pupilla e le lacrime che vi si formano. Bellocchio mi ha insegnato il corpo a corpo tra operatore e volto umano e tra luce e buio di cui è fatto il cinema. Il risultato è un volto di donna che vediamo nel presente del film farsi parente stretto di quelli dolenti degli spezzoni b/n delle esecuzioni di partigiani e del cinema russo, chiamati dal montaggio a fare da controcanto al momento cruciale della vicenda che conosciamo. Tornando a oggi, come si è ricodificata la tua poetica e il modo di illuminare il set cinematografico in relazione alle sorgenti a LED e in particolare in relazione all’evoluzione delle macchine da presa digitali? Ho usato apposta il termine analogico riferito alla mia ricerca della luce per segnalare come io abbia affrontato l’opacità della pellicola cinematografica non diversamente dal buio del palcoscenico. Cioè come una materia, su cui operare con delle tecniche di scavo e di rivelazione della trasparenza e della visibilità. Non faccio altro. Mi procuro un buon buio e vi scavo dentro la luce. Ora la qualità di questa materia è decisiva, e quando ho incontrato la pellicola cinematografica vi ho cercato le analogie con la granulosità e la polvere della scena teatrale. Il sensore digitale “documenta” nel miglior modo possibile, e sempre meglio, il buio, la luce, il colore. Li codifica, li trasporta, li decodifica con un processo febbrile di elaborazione numerica. giocare con la tecnica del dipinto a olio e quella dell’acquerello. La luce dell’esterno preme fin dall’inizio contro le pareti opache e leggermente socchiuse della reclusione di Maria, producendo quel perimetro di luce astratta e geometrica che si disegna sul pavimento. Basta, con artificio squisitamente teatrale, sollevare una cortina di tessuto nero e quella stessa luce inonda ora le pareti, rivelandone la consistenza di carta e la trama in controluce di tronchi e fogliame. Eccoci nel bosco giardino del secondo atto. Nel tuo approccio e nei progetti che hai sviluppato negli ultimi anni, come hai utilizzato le sorgenti e i corpi illuminanti a LED? Come risulta, nella tua esperienza pratica, miscelare Maja Sansa in Buongiorno, notte di / by Marco Bellocchio, 2003 Il Digitale Super 35mm è bella matematica. Il Negativo 35mm è bella chimica. Ma anche per la camera di un telefonino quello che fa la differenza è la luce. Io mi occupo di quella. Come è nata nell’opera Maria Stuarda la suggestione della scena del bosco incandescente che appare illuminato in controluce sulle pareti del salone? E come hai ottenuto questa luce, riuscendo a calibrare con nitidezza l’illuminazione degli interpreti all’interno della sala? Lo spazio e la luce di Maria Stuarda, nella regia di Andrea De Rosa, sono prima di tutto pittura e colore nel bozzetto di Sergio Tramonti. Ancora un manufatto umano fatto di materia, di pigmento e di supporto, di opacità e di trasparenza. Non diversamente dalle parole del libretto (o di un copione, o di una sceneggiatura), cerco di immergermi nelle immagini pittoriche proposte dallo Scenografo, di capire la loro lingua per farmene interprete con la luce sulla scena. Nello spazio quadrato della scena di Maria Stuarda operano due forze principali, quella del chiuso e quella dell’aperto, dell’opaco e del trasparente. Con la luce mi sono limitato a ed equilibrare i proiettori tradizionali alle nuove tecnologie? Mi ritorna una definizione ricorrente nelle tue discussioni, “uso distillato della luce… “. Questa tua modalità e approccio come fa a incontrare e confrontarsi con le esigenze, registiche, scenografiche e di messa in scena dell’opera lirica? È questo che intendo con “uso distillato” della luce. Farla scaturire dalle coordinate di spazio e tempo del palcoscenico o del set in quantità e qualità severamente controllate. Poco colore e molta fede nelle possibilità di suggestione derivanti dalla semplice modulazione della temperatura di colore del bianco (e qui cinema e teatro si incontrano) e scelta conseguente dei corpi illuminanti per la qualità della loro emissione d’origine. Quindi un range che va dall’incandescenza della candela a quella del filamento di tungsteno fino ai bianchi “freddi” delle lampade ad arco. Ho iniziato a utilizzare la tecnologia LED solo quando i proiettori sono stati dotati di un sufficiente numero di diodi nativamente bianchi da miscelare alle altre componenti primarie dello spettro cromatico. Sono abituato a fare la luce attraverso la scelta delle minori componenti possibili, non credo nell’additività impressionistica, quindi MAGIC LANTERN / LUCE 322 73