A sedici anni aveva cominciato a lavorare come apprendista nella bottega di Zì Domenico,1 il sarto più bravo del
paese. Così si usava allora. I giovani volenterosi si mettevano al seguito di un artigiano e ne imparavano il
mestiere; e dopo qualche anno, se avevano imparato
bene l’arte del Mastro, potevano aprire bottega per conto
proprio e avere pane e companatico.
Lui, che di volontà ne aveva avuta sempre tanta, era
così riuscito a metter su un piccolo laboratorio nel giro
di poco tempo. Poi si era sposato, e se non fosse stato per
la malasorte avrebbe potuto vivere felicemente. Eh!...
quando una cosa deve andare storta!... hai voglia a fare!
I tempi erano cambiati: c’era stata la guerra, che si era
lasciate dietro distruzione, miseria nera e disperazione.
La gente, che se prima era povera sì, ma riusciva pure a
tirare avanti in un modo o nell’altro, era diventata talmente disperata che non era raro vedere, per le viuzze del
paese, segnate in più punti da lunghi rivoli di urina disseccata e puzzolente, gruppi di persone che si contendevano animosamente un tozzo di pane ammuffito o una
crosta di cacio, gettati via dalle finestre di quelle due o
tre case di signori che stavano pure lì. Eh! La guerra c’era
stata per chi c’era stata! Così accadeva, come sempre, che
ci stava chi si abbottava come un rospo2 e chi crepava di
fame. Ma il mondo era andato sempre così: una volta a
te e l’altra pure. Chi ci rimetteva era il pover’uomo.
1 - L’uso dell’appellativo”Zì” e”Zà” (=Zio e Zia) è ancora vitale in Abruzzo. Esso
viene impiegato per rivolgersi a una persona anziana e corrisponde a”Signor”
e”Signora”.
2 - Chi si gonfiava come un rospo.
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