di Massimo Calise
L’elezione di Renzi, nel dicembre 2013, a Segretario del PD parve una ventata nuova nella politica italiana. L’idea della rottamazione suscitava qualche perplessità ma anche molte aspettative; la speranza era che il termine un po’ rozzo celasse una volontà di cambiamento. Ma anche la semplice rottamazione, con la sola eccezione di molti esponenti della sinistra del suo stesso partito, si è fermata agli annunci.
Osservando lo stile e le modalità di gestione del potere che gli deriva dalla duplice funzione di Segretario del maggior partito e Presidente del Consiglio mi tornano i mente i versi “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi di antico”. Voglio significare che dietro una patina di modernità e di giovanilismo affiorano abitudini e costumi antichi non sempre commendevoli; ne cito qualcuno.
Primo. Non è un mistero che Renzi consideri la fedeltà nei suoi confronti una caratteristica determinante e prediliga circondarsi di amici; il caso di Marco Carrai ne è un esempio emblematico.
Secondo. Lega a se e privilegia i notabili portatori di pacchetti di voti; la considerazione politica è condizionata esclusivamente dalla capacità di rastrellare voti; da ciò il conseguente “voto non olet” con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Terzo. Manifesta intolleranza verso ogni critica al motto “o con me o contro di me”.
Quarto. Coloro che descrivono la realtà in modo non aderente alla sua ottimistica narrazione sono bollati come disfattisti che ostacolano la sua “politica del fare”.
Ora tutto ciò, nel meridione è vecchia quotidianità; i politici locali lo fanno da sempre e le eccezioni, che esistono, sono emarginate.
Vige un meccanismo di scambio voto/favori. Un politico locale e un candidato ad una assemblea elettiva regionale o nazionale si accordano per uno scambio. Con esso il politico locale si impegna ad assicurare un pacchetto di voti al candidato che, a sua volta, promette di ricambiare con favori futuri che possono consistere in vantaggi personali o in interventi a favore del territorio. Le due cose non si escludono. Sia il politico locale che quello regionale/nazionale accrescono il loro potere. L’appartenenza a famiglie allargate prevale sul merito ed il mantenimento dello status quo diviene un obiettivo che ostacola ogni tentativo di innovazione e di progettualità. L’approccio renziano, di fatto, costituisce un potente incentivo per le elites estrattive che da decenni difendono con successo il loro potere nel Mezzogiorno.
Ora, con questi presupposti, mi chiedo se il premier potrà rispettare la massima che lui stesso ha posto all’inizio della sua biografia sul sito del Partito Democratico. Essa recita: “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo trovato” (Baden-Powell).
Renzi pensa di poter lasciare la politica italiana e il suo partito in condizioni migliori di quelle, già disastrate, in cui li ha trovati? È una domanda che, criticamente, ciascuno di noi dovrebbe porre anche a se stesso.
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#SVEGLIA SUD
renzi, una politica che sa di ritorno
al passato