IL BRIGANTE ED IL GENTILUOMO Il brigante e il gentiluomo II | Page 36
sentiva un po’ stanco per la cavalcata e aveva voglia di sen-
tire la terra sotto di sè.
Smontò con accortezza dal destriero lasciando le
redini al servitore. Si sedette, guardò il cielo terso, ed
inspirò l’aria nella quale si spargeva l’odore forte della
boscaglia. E si sentì vivo.
C’era un ricordo che Michele cercava di evitare, di can-
cellare. Un ricordo lancinante che gli feriva l’anima. Lo te-
mette in quei giorni, lo temette quasi atterrito. Sentiva che
se avesse vissuto ancora quei momenti non ce l’avrebbe
fatta, sarebbe sprofondato in un oblio profondo più
oscuro della fine, più buio e straziante del nulla; di un nulla
che avrebbe potuto diventare anche dolce, un soffice nulla
dove adagiarsi come un guerriero stanco e ferito, dove la-
sciarsi avvolgere, cancellare, dove tutto sarebbe diventato
un grande vuoto, una grande pace, come un sonno nel
quale svanire.
Sognò Elisabetta, si svegliò due notti con il volto ba-
gnato di lacrime, le mani doloranti come se avesse tentato
di afferrare qualcosa con forza, come se avesse tentato di
salvarla.
Se Caruso era diventato la sua divinità dei boschi, il suo
Pan ghignante delle selve oscure, delle foreste celate dalla
notte, Elisabetta era diventata la sua dea del dolore, il suo
segreto insopportabile, il suo amore ancora vivo che si tra-
sformava in un meccanismo distruttivo, lacerante, l’amore
infinito che ancora la cercava e non trovandola si ripiegava
su se stesso, divorandolo.
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