I_Canti_di_Castelvecchio Canti di Castelvecchio | Page 47

assise in cerchio, con l’aeree grotte intronate dal cupo urlo del vento, odano lo stridor d’un focherello ch’arde laggiù laggiù forse un villaggio con le sue selve; un punto, un punto rosso or sì or no. Né pur vedea la gente là, che moriva, i mostri dalla ferrea voce e le gigantesse filatrici: i mostri che reggean concavi laghi di sangue ardente, mentre le compagne con moto eterno, tra un fischiar di nembi, mordean le bigie nuvole del cielo. Ma non vedeva il popolo morente gli dei seduti intorno alla sua morte, fatti di lunga oscurità: vedeva, forse in cima all’immensa ombra del nulla, su, su, su, donde rimbombava il tuono della lor voce, nelle occhiute fronti, da un’aurora notturna illuminate, guizzare i lampi e scintillar le stelle. E lo Zi Meo parlò. Disse: «Formiche! L’altr’anno seminai l’erba lupina. Venne la pioggia: non ne nacque un filo. Vennero i soli: il campo parea sodo. Un giorno che v’andai, vidi sul ciglio del poggio un mucchiarello alto di chicchi. Guardai per tutto. Ad ogni poco c’era un mucchiarello. Erano i semi, i semi d’erba lupina. Avean rumato poco? Non un chicco, ch’è un chicco, era rimasto! Aveano fatto, le formiche, appietto! E ben sì che v’avevo anco passato l’erpice a molti denti, e su la staggia,