I_Canti_di_Castelvecchio Canti di Castelvecchio | Page 44

«Vogliono dire ch’han la tiglia soda più che nimo altri che di mattinata porti in monte il cavestro e la bardella. E hanno l’arte, perché intorno al peso girano ora all’avanti ora all’indietro or dalle parti, per entrarci sotto. Se lo possono, via, telano; quando non lo possono, vanno per aiuto; e su e su, per una carraiuola: come una nera fila di muletti di solitari carbonai, su l’Alpe, che in quel silenzio semina i tintinni de’ suoi sonagli. Alcuno ecco s’espone, come anco noi, per ragionar con altri che scende, e frescheggiare allo sciurino». E disse il Menno, vangatore a fondo, a cui la terra, nell’aprir d’aprile, rotta e domata ai piedi ansa e rifiata: e’ la sogguarda curvo su l’astile: «Ho inteso dire ch’hanno i suoi poderi, come noi. Sotto le città ben fatte coltano un campo sodo: che bel bello si fa lo scasso, e qua si tira dentro, là si leva la terra, e si tramuta con le pale o valletti e cestinelle. La pareggiano, seminano. Nasce un’erba. Ed ecco poi vanno a pulirla, levano il loglio, scerbano i vecciuli, e scentano la sciàmina, cattiva, e la gramigna, che riè cattiva, e i paternostri, ch’è peggior di tutte. A suo tempo si sega, lega, ammeta, scuote, ventola, spula. Eccolo bello