Hegel_Elena.pdf Nov. 2014 | Page 12

Se pensiamo al comandamento dell’amore sembra paradossale che l’amore debba o possa essere comandato. Kant lo avvertì come uno scandalo, e perciò volle ridimensionare assai la portata di questo precetto. In verità, però, il comandamento dell’amore non vuol essere una prescrizione, bensì una realtà vissuta, che ci accompagna tutti, con maggiore o minore intensità, per l’intera esistenza. Il “prossimo” non è infatti una determinata figura che incontriamo una volta sola, bensì affianca costantemente il nostro vivere, come una continua esortazione a considerare gli altri, a rispettarli e onorarli in tutti i loro diritti e nella loro vera essenza. Tutto ciò è già implicito nel comandamento cristiano dell’amore, che in tal senso non impone di amare, ma di soddisfare le premesse grazie alle quali l’amore può svilupparsi come un’autentica unificazione tra me e te, fra un “Io” e un “Tu”, fra il cittadino di una regione e la società in cui vive, il suo governo, il suo Stato. L’amore, infatti, è soggetto a ben precise condizioni. Proprio su questo tema il giovane Hegel si era impegnato con molta energia. Naturalmente egli non rifletteva solo da teologo, ma anche da filosofo, in grado di approfondire le opere di Kant – come fece a Tubinga – e poi anche di Fichte, il cui ingresso nella storia della filosofia gli offrì il punto di partenza da cui poter sviluppare autonomamente il proprio pensiero. Nel giovane Hegel sono presenti anche i concetti di: vero, bene, bello, proprio a partire dalla Trinità, della quale tuttavia la filosofia faceva rivivere un’accezione diversa. Si tratta sempre di una triade, quella composta dal vero, dal bene e dal bello. E il “bello” non si riferisce, come potrebbe sembrare, all’estetica, alla sfera dell’arte, bensì evoca l’antica formula che fu espressa in Platone, secondo cui “il vero è il bene, e il bene è visibile solo nel bello”. Il che, appunto, non significa che esso compaia solo nell’arte così come la intendiamo noi, ma solo che è alcunché di visibile. “Il bello è il modo in cui il bene si mostra”. Ed è anche implicito che esso si manifesti a tutti, venga condiviso da ciascuno. Pertanto, l’esperienza della bellezza è un tratto comune a tutti. Già Kant, nella sua terza opera fondamentale, la Critica del Giudizio, aveva considerato l’esperienza del bello come qualcosa che si deve presupporre in tutti gli esseri umani. Ci troviamo quindi al centro di quella tradizione del pensiero europeo, fondata da Platone, che istituisce una correlazione tra il vero, il bene e il bello, sintetizzata – in sostanza – in quella domanda intorno al bene che Socrate rivolgeva ai suoi concittadini con tanta insistenza da diventare sgradito e da essere infine condannato a morte. Sarà poi Platone a perpetuare la memoria di quest’uomo straordinario, descrivendoci un Socrate dotato di grande sensibilità erotica, il cui fascino conquista i giovani che lo frequentano e che ci appare, insomma, come un iniziato ai misteri dell’amore. In un dialogo di Platone, la celebre Diotìma, sacerdotessa di Delfi, si intrattiene con Socrate, spiegandogli l’importanza di educare alla bellezza se stessi, i concittadini e tutta la società. Questi pensieri di Platone si ritrovano nel platonismo dell’epoca che si apre con Kant. La Dissertatio kantiana è intitolata: La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, e distingue appunto un mondo diverso da quello sensibile: non possiamo parlare come di un discorso platonico in senso stretto, ma essa si inserisce nel grande solco che quel pensiero ha lasciato nella storia della filosofia occidentale e che oggi chiamiamo “Neoplatonismo”. Sul finire d [8