Cultura Oltre - 2^ numero - Febbraio 2018 rivista-cultura-oltre FEBBRAIO 2018 | Page 10
soffitto può raffigurare. Il piccolo quadretto resta un quadretto apparentemente, ma
racchiude un apologo che è un capolavoro.
Entra in scena il direttore d’orchestra e così il film sposta il suo baricentro: l’orchestra
è solo uno dei fuochi, perché il centro del film verte sul rapporto perduto tra la musica,
il direttore e la sua orchestra. I problemi sindacali degli orchestrali messi in moto anche
dalla tv e la lotta di classe contro il dispotismo del direttore scatenano una rivolta
devastante che violerà la sacralità di quel tempio dedicato alla musica. La musica come
metafora di ciò che poteva essere la rivoluzione, ma filmata da un regista che non
amava fare del cinema politico. La sua idea di cinema politico è meravigliosa perché è
non monoliticamente ideologica, ma cinema che si espande in ciascuna delle parti in
causa e poi le trascende, per passare dal politico al sociale, dal sociale alla metafisica.
Fellini infatti non può fare a meno di riconoscersi nel direttore d’orchestra, di
paragonare la direzione dell’orchestra alla direzione di un film, così sembrano uscire
dalla sua bocca queste frasi pronunciate dal direttore tedesco: “la musica è parte di
mondo? Ma il mondo non esiste più, per cui musica non esiste più” – “adesso epoca
decaduta, finita, non ha più senso oggi il direttore d’orchestra. Direttore d’orchestra
è come prete in chiesa, ma se non c’è chiesa” – mentre prima- “la musica era come
messa, come rito” – perché era “il silenzio, il far nascere voce dal silenzio e poi tornare
al silenzio” – “oggi tra direttore e orchestrali c’è dubbio e rancore perciò che è
perduto, uniti in odio come una distrutta famiglia. Prima c’era amore tra direttore e
orchestrali”. Per questo Fellini fu criticato di dispotismo politico-sociale in una
stagione del cinema che credeva prima nella politica e poi nell’arte. Ma l’arte, il cinema
possono essere democratici? Un regista sfrutta coloro che lavorano con lui per
raggiungere il sublime, che poi diverrà il sublime per chi lo guarderà. C’è una
contraddizione politica nell’arte, un inevitabile autoritarismo che Fellini registra
appunto come necessario ma non idilliaco: la sua sembra una dichiarazione sul DNA
dell’arte, che un’artista deve accettare, accettando così anche la negatività della sua
posizione, l’emarginazione tra gli uomini.
Il film sulla musica trasformato in film politico e sull’arte poi esplode in una tensione
impensabile: un rumore che fin dall’inizio disorientava saltuariamente gli intervistati
ferma la rivolta, non prima che la violenza sia degenerata in anarchia e in crisi
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