Bet El Za 1 - Bet-el-za Originale | Page 44

A Milano sceglie lo stile dell’ascolto e dell’azione: «approfondire e allargare», in nomine Domini (“nel nome del Signore”), come dice il suo motto episcopale. «Apriamo gli occhi», scongiura i sacerdoti nel 1958: «Non illudiamoci con formule fatte: che tutti sono buoni, che tutti sono cattolici, che — tanto — il Signore li salva tutti». Ed è anche impietoso nell’autocritica: «Forse perché ieri abbiamo dormito?». Montini non esita, quando ha deciso la strada: pensate alla Missione cittadina del 1957, che resta la più grande mai predicata nella Chiesa cattolica, 302 sedi di predicazione parrocchiali, con 720 corsi predicati da 18 vescovi, 83 sacerdoti, 300 religiosi: Fire in Milan (“Incendio a Milano”) viene definita dal «Time». L’esperienza di Chiesa “di popolo” è per lui una continua sollecitazione alla trasmissione della fede, per attirarvi quelli che venivano definiti i “lontani”. E per questo l’arcivescovo è sempre disponibile, e va dai tabaccai, piuttosto che dai parrucchieri, organizza la missione perfino per le fotomodelle, va alla «Gazzetta dello Sport»: contiamo undicimila nomi nelle sue agende degli otto anni ambrosiani. Il giornalista Cavallari sul «Corriere della Sera» parla di «facchinaggio»; il teologo Congar usa un’espressione più elegante: «intensità». E dobbiamo aggiungere la carità, a partire dal pranzo che il nuovo arcivescovo vuole offrire ai poveri il giorno del suo ingresso in città: ne raccoglie millecento. È un’azione in gran parte nascosta, come le visite ai poveri vestito da semplice prete, in nigris, come si diceva, senza che lo si sapesse. Una delle suore che vivevano con lui ha testimoniato che l’arcivescovo, 44 girando nel suo appartamento, ripeteva: «Ho troppa roba nel mio comò: Datela ai poveri, datela ai poveri». L’amore per le anime che gli sono via via affidate è una prima caratteristica che unisce gli otto anni a Milano e i quindici da pontefice: nel gennaio 1955, arrivato al confine della diocesi ambrosiana, Montini si inginocchia, appoggia nella neve il suo cappello e bacia la strada bagnata: cioè accetta umilmente quella terra come sua, una promessa di amore e servizio. Un gesto sorprendente all’epoca, che verrà ripetuto da papa nei viaggi. Altro elemento di continuità tra episcopato e pontificato è la consapevolezza del proprio ruolo. Nel discorso d’ingresso a Milano dichiara: «Apostolo e vescovo io sono; pastore e padre, maestro e ministro del Vangelo; non altra è la mia funzione tra voi». All’educazione liturgica l’arcivescovo dedica la lettera pastorale del 1958 e lì vuole affermare che la prima urgenza è far capire la messa al popolo: il fedele «oggi va al cinema, e tutto gli appare chiaro; va a teatro e avviene altrettanto; apre la radio e la televisione e tutto gli riesce comprensibile», poi «finalmente va alla messa, e di tutto quello che gli si svolge davanti non capisce niente». L’arcivescovo che predica in ogni occasione con parole nuove (abbiamo anche pezzettini di foglietti scritti a matita, quando gira le parrocchie), che raccomanda di uscire dall’«oratoria chiesastica», è il papa che inventa le udienze generali del mercoledì e ne scrive personalmente i testi ogni martedì.