di Sandro Giorello
Oggi nella musica le nicchie sono importantissime. Me lo diceva Linus nel suo ufficio
mentre cercava di spiegarmi come fosse difficile per Deejay trovare una nuova identità
in un momento in cui la radio – la sua in primis, ma pian piano saranno costrette a farlo
anche le altre – ha il bisogno fisiologico di guardarsi intorno e scoprire cose nuove. Non
ci si può più permettere di non ascoltare qualcosa a priori e anche un genere antico come
la musica classica può dimostrarsi, in realtà, più che moderno. Deejay non comincerà a
passare Vivaldi, è chiaro, ma è anche vero che negli ultimi anni certi compositori
sembrano aver acquisto una coolness piuttosto inedita. Per dire, Max Richter su Spotify
oggi ha sicuramente più ascoltatori di Kelela o di Fka twigs, e per poco non supera
Chris Stapleton, il cowboy che ha sbaragliato tutte le chart diventando il nuovo paladino
della country.
Allo stesso tempo, però, le sale da concerto fanno fatica, le scuole di musica vengono
chiuse un giorno sì e l’altro pure e i conservatori annaspano. Definire lo stato di salute
di questo genere nel 2017 non è facile: ne ho discusso con Luca d’Alberto, attualmente
uno dei compositori italiani più autorevoli in ambito neoclassico. Di lui vi avevamo già
parlato prima dell’estate in occasione dell’anteprima esclusiva di Endless, il suo album
uscito per la 7K!, la nuova sub-label che la tedesca K7! ha voluto creare apposta per lui.
Dopo un percorso di studi sorprendentemente precoce e di successo, Luca ha rinunciato
agli ambienti accademici per aprirsi ad altri tipi di collaborazioni. Ha lavorato con artisti
del calibro di Saskia Boddeke, Peter Greenaway, Wim Wenders, con i ballerini del
Tanztheater di Pina Bausch e, tra gli ultimi suoi progetti, c’è anche la colonna sonora
dell’ultimo film di Costanza Quatriglio, Sembra mio figlio.
«Dobbiamo distinguere la classica dalla neoclassica o, come preferisco chiamarla io,
dalla post-classica. All’epoca d’oro della Deutsche Grammophon si organizzavano delle
mega registrazioni di brani molto famosi, come la Nona di Beethoven o altri, con cori da
trecento persone e tutta l’orchestra al seguito. Dal momento che non potevano
guadagnare dalle edizioni – perché nessuno detiene i diritti di uno come Beethoven, di
norma decadono 70 anni dopo la morte dell’artista – loro puntavano a vendere dischi e,
quando il mercato discografico è crollato, queste realtà si sono trovate in grave
difficoltà. Oggi i modelli economici sono cambiati: se la Apple o il torneo di
Wimbledon vuole utilizzare le mie musiche mi paga i diritti. Ed è cambiato anche il
pubblico: ho fatto concerti sold-out sia a Londra che a Berlino ed era un pubblico
giovane, non dico lo stesso di un concerto rock, ma quasi».
Luca sta vivendo uno dei momenti più belli della sua carriera da compositore ma
preferisce andarci piano con i facili entusiasmi, perché le volte in cui la classica si è
caricata di un hype inaspettato i risultati, poi, sono stati piuttosto goffi. «Non mi piace
molto la parola cool» – spiega. «C’è stato un periodo in cui la scena classica ha iniziato
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