XL, l'house organ di OPES anno 2, n°3, marzo 2020 | Page 7

07 Il virus e la voglia di attaccarsi ancora allo Sport AVREBBE DOVUTO ESSERE L’ANNO DEL GRANDE SPORT, QUELLO CON LA S MAIUSCOLA. LE OLIMPIADI DI TOKYO, GLI EUROPEI DI CALCIO CHE SAREBBERO STATI ITINERANTI, LE NOTTI MAGICHE, LE NOSTRE VITE SUBORDINATE AI PALINSESTI TELEVISIVI E AGLI ORARI DEGLI EVENTI DI MAGGIORE INTERESSE AVREBBERO DOVUTO REGALARCI EMOZIONI E RACCONTARCI STORIE INCREDIBILI. Ed invece, il 2020 sarà ricordato come l’anno del COVID-19 e dello sport che si ferma e va in quarantena. Addio agli stadi pieni, agli abbracci con uno sconosciuto che condivide la stessa passione e la stessa gioia per un goal, per una medaglia o per una vittoria e tanti cari saluti alle nostre consuetudini ed abitudini. Anche quando l’esplosione epidemiologica deflagrava a Wuhan, ci siamo aggrappati allo sport, alle nostre partite, ai nostri idoli, ai nostri allenamenti per tenerci in forma e alle nostre performance fisiche per esorcizzare le paure. Il coronavirus, per noi, era lontano, ci riguardava marginalmente, ed era un argomento che rimaneva confinato in estremo oriente, per la precisione in una Regione della Cina conosciuta come Hubei. Recepivamo le news riguardanti i contagi, le vittime, i blocchi e gli stop a tutte le attività produttive in maniera distratta. Guardavamo avanti, come se a noi occidentali non potesse mai capitare una simile emergenza epidemiologica, che in breve tempo si sarebbe trasformata in pandemia. Così come nella vita quotidiana, anche nello sport ci siamo costruiti una bolla che pensavamo potesse resistere a tutto. Una pura e mera illusione, perché lo sport ha anche questo potere. A mano a mano che il tempo passava e che la diffusione del virus varcava i confini cinesi, con gli spettacoli e gli eventi sportivi che passavano dalle porte chiuse, al rinvio a data da destinarsi o all’annullamento, abbiamo realizzato che lo spettacolo non poteva più andare avanti. Quel poco onorevole e abusato slogan che ha in “the show must go on” il suo cavallo di battaglia veniva sostituito da una frase piena di positività. Il motto, l’inno o il grido d’unione, evocato da “andrà tutto bene”, diventava il nostro modo di arginare il virus. Anzi, contingentare, un verbo che abbiamo iniziato ad utilizzare sempre più frequentemente, anche nel linguaggio comune, come alchimia per confinare, contenere ed allontanare lo spettro del coronavirus. Lo scorso 20 febbraio, quando da Codogno arrivava la notizia di un uomo di 38 anni, aitante, sportivo ed atletico, affetto da COVID-19 e ricoverato in terapia intensiva per insufficienza respiratoria, abbiamo compreso immediatamente che quella data sarebbe stata il nostro point of break. Il punto di rottura. Scoperto il primo caso, intraprendevamo una vana caccia al paziente “zero” e, allo stesso tempo, inscenavamo una corsa illogica, irrazionale e folle per acquistare beni di prima necessità, tra cui spiccavano le mascherine e i gel igienizzanti e disinfettanti. Poi, scattava l’ora della fuga per allontanarsi da quelle terre che venivano definite come epicentro del focolaio. Provavamo a resistere, ad andare avanti con la nostra quotidianità che, a poco a poco, diventava sempre più limitata. Come in un rapporto direttamente proporzionale, al crescere del numero dei contagi aumentavano le restrizioni imposte dai vari Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’Italia diventava un’enorme zona rossa e lo sport si fermava. Non solo quello agonistico, ma soprattutto quello di base. Campionati congelati e palestre, piscine ed impianti sportivi chiusi. Fino al 3 aprile, recita un decreto. Ma non è escluso che la data di un primo, parziale ritorno alla normalità possa essere posticipata. Per il bene comune, il bene di tutti, di ogni singolo cittadino.