legno rossastro, che presentava due varietà, molto resistenti
alle gelate ma insofferenti alla siccità, le quali davano poco
vino ed eccedevano in vinaccioli e feccia 27) ; le viti Apiane, cor-
rispondenti molto probabilmente alla nostra uva moscata,
che prendevano il nome dalle api ghiotte dei loro acini ed
erano tenute in grandissima considerazione dagli abitanti
dell’Etruria.
Fra i vitigni importati si possono citare: l’Eugenia (“di
nobile stirpe”, secondo l’etimologia greca), diffusa dai colli di
Taormina e presente nelle campagne di Albano; ottima vite
che, tuttavia, degenerava velocemente quando veniva tra-
piantata (Plinio, XIV, 25) allo stesso modo della Retica e del-
l’Allobroga, provenienti la prima dal Veronese e la seconda
dalla Gallia; la Grecula, originaria della Grecia; la Visulla, dai
grappoli radi, non belli ma di sapore gradevole, le cui foglie
ampie e consistenti la proteggevano dalla grandine (Plinio,
XIV, 28); le Elvole (o Elveole), famose per il colore che variava
dal rosso al nero, dette per questo anche variegate (ossia can-
gianti); la Tiburtina, così chiamata dalla città di Tibur (l’o-
dierna Tivoli); la Vinaciola, conosciuta dai soli Sabini 28) e
tante altre.
Fra le viti da ricordare, più per l’uva da tavola che per il
vino, spiccavano le qualità dolci provenienti dalla Grecia,
grandi, belle, cogli acini polposi e asciutti. Per le loro qualità
facevano molta concorrenza alle varietà indigene. Fra queste
ultime, le uniche che potevano reggere discretamente il con-
fronto erano: la Bumaste (l’attuale “Mennavacca” della
Puglia), dai grappoli turgidi come le mammelle, la Dattilo
27)
Cfr. Plinio, Stori