uNO SCALINO AL GIORNO
di gIOV
ANNI sTOTO
Non ero mai riuscito a portarla con me giù in cantina senza
che lei facesse tante moine. É strano come ogni volta trovasse una scusa che sul momento sembrava un pur valido
motivo. Ricordo ancora la prima volta che varcammo la
so glia di casa: fu impressionata da quegli scalini ripidi che
sembravano immergersi in un abisso di pece, un mare denso e nero che emanava (lei diceva) un nauseabondo odore
di vecchio. Ma pensa! E io che credevo che le cantine profumassero di olii delicati e d’incensi orientali.
E che dire delle fantasie che quel posto le suscitava nella mente? Una sera, mentre ero concentrato su un difficile
passaggio di una fuga di Bach, lei mi fu dietro in preda al
panico, balbettando frasi assurde, con la convinzione che il
buio in fondo alle scale della cantina fosse solido, tangibile.
Fu ancora più convinta di ciò da quella volta che tornai dal
basso completamente ricoperto da uno strato di fuliggine.
Cercai invano di spiegarle che ero andato a mettere ordine
nella carbonaia.
Passarono le settimane. Con il sopraggiungere della primavera scendevo di rado in cantina: la caldaia era ormai
inattiva e non essendo io un gran bevitore di vini non avevo
alcun pretesto per mettere piede in un posto così angusto,
umido e buio. Non che ne fossi spaventato, comunque!
Mia moglie, invece, prese la strana abitudine di star seduta
per ore sul ciglio delle scale a fissarne il bordo. All’inizio la
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