Ho bisogno di qualche secondo, appoggio le mani sul davanzale. Non sento nulla, come se il mio corpo non mi appartenesse. Non mi abituerò mai a questa sensazione anche se so
che non durerà molto.
Stringo il marmo, almeno credo di farlo.
Ecco ora sento il freddo della pietra e l’umidità sotto i palmi.
Ora le dita mi dolgono.
Sono tornato.
La stanza è vuota, almeno lo sembra. E da parecchio direi.
Un rumore dalla tromba delle scale. Passi veloci, molti.
Hanno già rintracciato il mio percorso, è evidente che la morsa intorno alla mia gola possa fare anche questo.
Mi affaccio dalla finestra, due dei miei carcerieri sono in strada, e i loro bastoni elettrici non promettono nulla di buono.
Da qui si vede il parco cittadino. Saranno un paio di chilometri, per quanto possano correre, riuscirò a seminarli.
Non tento un salto del genere da tre anni, ma i colpi alla porta non mi permettono delle prove preliminari.
Nell’ingresso un vecchio antifurto lampeggia ancora.
Sfioro lo schermo, spero solo che non abbia il riconoscimento digitale.
- Buona sera Carlos. Devo aprire? - No! No. Aziona il blocco e inserisci l’antisfondamento. Il grido strozzato dall’altra parte mi informa dell’efficienza
della robocasa. Forzeranno comunque la serratura, ma almeno la soddisfazione di friggergli una mano me la sono presa.
Torno alla finestra e fisso un punto tra due grosse magnolie.
L’intorpidimento è più lungo del solito, so di aver saltato ma
non vedo nulla. Le braccia e le gambe mi fanno un male d’inferno e se non recupero in fretta, sarà stato tutto vano.
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