Le rovine di Alessandria
di Eleonora Pescarolo
L
a prima volta che misi piede nella biblioteca, ebbi l’impressione di essere entrato nella contorta mente di Dio.
Gli scaffali si ergevano come titani dormienti e, mi sento in dovere di aggiungerlo, infiniti, poiché all’infinito si estendevano,
scomparendo oltre l’angolo composto da un’altra infinita fila di
scaffali.
Non avevo avuto modo di misurare quale fosse la grandezza
dell’edificio dall’esterno ma, trovandosi nel cuore di New York,
supposi non dovesse essere molto grande e mi convinsi che
quell’immensa ampiezza altro non fosse che un abile gioco di
specchi. Ogni volta che l’impressione dell’immensità della biblioteca mi provocava la vertigine, chiudevo gli occhi e ringraziavo il cielo per il fatto che io, in quanto semplice custode, non
mi sarei mai dovuto inoltrare in quella fitta giungla di carta e
legno di faggio.
Non potevo vedere all’esterno, ma sapevo che era notte. La sala
antistante la biblioteca era buia e vuota; la luce fredda di una
lampada era l’unica compagna, sul banco dietro il quale mi trovavo seduto da chissà quante ore. Avevo perso il conto. Forse
ne erano passate troppo poche. Posai le mani su quel banco di
legno robusto e laccato, pieno di segni e macchie d’inchiostro;
mi chiesi da quanti anni, o decenni, un bibliotecario si sedeva al
mio stesso posto ogni giorno, compilando i registri alla vecchia
maniera. C’era un vecchio computer, certo, dalla parte opposta
alla lampada, ma non sembrava essere stato usato molto negli
anni. O forse era solo una mia impressione.
Il tempo trascorreva anche fin troppo lentamente e, per ingannarlo, decisi di guardarmi attorno. Fu così che scoprii, sotto la
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