Un amore sintetico
di Giov
anni Stoto
Alla fine Rachel era rimasta più a lungo di quanto egli avesse
sperato, eppure non abbastanza. L’avesse avuta accanto fino alla
morte, non gli sarebbe comunque bastato: l’aveva conosciuta
quando il conto dei propri giorni in vita era vicino al giro di boa
e il viaggio fin lì, quattro anni prima, gli era sembrato un’attesa
che ignorava di star subendo. Quelli che seguirono furono anni
vissuti alla giornata, un po’ come mettere al buio un piede avanti
l’altro e accorgersi tardi del passo di troppo.
Non sapeva quanto Rachel fosse speciale, né se lo fosse. Ignorarne la data d’immissione rendeva vano ogni tentativo di scoprirlo, costringendolo a subire un’altra attesa che si sarebbe volentieri risparmiato. Se anche lei fosse stata come gli altri replicanti,
con una durata limitata a quattro anni, non ci sarebbe stato comunque modo di rallentare il processo d’invecchiamento delle
cellule, e ignorarne il ritmo d’avanzamento rendeva tutto più
complicato. Era come sapere di dover ricevere una pallottola in
pieno cuore senza avere il privilegio di poterne sentire lo sparo.
Non che ci fossero giubbotti antiproiettili a poter far da scudo.
Rachel viveva questa condizione con naturalezza: la sua carne
sintetica non toglieva valore alle azioni di un corpo che lei aveva sempre creduto umano e che umano rimaneva anche per lui,
poiché era in grado di procurargli brividi reali al pensarlo, al
toccarlo, al possederlo.
La fuga da chi avrebbe dato loro la caccia a ogni costo, terminando lei e imprigionando lui, li portò fino ai territori di confine,
dove un passaggio per le colonie extramondo gli costò la mac53