Monowitz. Il capitano chiuse il diario e rimise il portasigarette nella tasca
interna della giacca. Lanciò un’occhiata distratta ai massicci fabbricati industriali e alle ciminiere svettanti. Non era qui come
turista, ma per stilare un rapporto di efficienza da presentare al
suo diretto superiore Arthur Liebehenschel che, prima dell’inverno, avrebbe preso possesso del trono di tutto il complesso di
Auschwitz al posto di Rudolf Höß.
Stanco per il viaggio, tornò a riposizionarsi sul sedile posteriore.
Reclinò lievemente il capo e nemmeno si accorse di appisolarsi,
sino a quando l’autista lo ridestò con una leggera pressione sulla
spalla.
Aprendo gli occhi vide che era calato il buio e la macchina era
ferma.
In lontananza, scorse un paio di figure sbiadite che sostavano
su una vasta banchina bianca, sotto la quale correvano dei binari ferroviari. Cercò di adattare la vista all’oscurità della notte,
quando un gran fascio di luce colpì la macchina e Geert dovette
schermarsi il volto con una mano per non rimanere accecato.
Si calcò il berretto sul capo, prese la valigetta e scese dall’auto. A
grandi falcate raggiunse i due uomini sulla banchina. Uno indossava un camice bianco sopra la divisa e i gradi di capitano; lo
colpì il viso giovanile, cordiale, con fronte ampia e sguardo compassionevole. Dopo un tiepido saluto nazista si presentò come
Hauptsturmführer Josef Mengele. L’altro come Standartenführer
Jürgen Fuchs: un uomo piccolo e scuro di capelli, pallido come
un cencio slavato e occhi iniettati di sangue. Geert non poté non
notare che sotto il colletto della divisa spuntava un lembo di una
benda bianca, dalla quale si notava una piccola macchia scura,
forse di sangue rappreso. E il riverbero della luce del riflettore
mise in risalto la sua eterocromia: aveva un occhio azzurro e
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