Il gioiello
di P.A.M. Diraque
I rivelatori fotonici sul confine della galassia rivelarono la presenza dell’oggetto come una macchiolina sugli schermi. I calcolatori esaminarono le possibilità note, calcolarono traiettorie
possibili di pianeti vaganti, di asteroidi persi, di relitti alla deriva. Esaminarono lo spettro della luce riflessa e lo confrontarono
con quelli in memoria. Il risultato: sconosciuto. E suonarono gli
allarmi.
Si stabilì che non era una minaccia. Poteva essere un pianeta, formatosi chissà come nello spazio profondo, ma era perfettamente sferico, perfettamente, per quanto fosse possibile misurarne
la forma. Poteva essere un esoterico manufatto, ma era troppo
grande, rivaleggiava con Titano . E poi aveva una caratteristica
che lo rendeva impossibile: era di carbonio puro, cristallizzato
nel sistema monometrico.
- È un diamante, … di dimensioni planetarie! - urlò l’analista.
Il comando regionale deviò verso quel colossale gioiello una
nave, l’Agena, che altrimenti avrebbe dovuto valutare le riserve di idrogeno solido su uno qualsiasi dei sistemi ghiacciati di
NGC 1647, in Taurus.
L’equipaggio dell’Agena si avvicinò al misterioso oggetto che ripeteva tutte le luci dell’Universo, che riflettevano, rifrangevano,
specchiavano, brillavano, lampeggiavano, raggiavano, esplodevano, scintillavano, sfavillavano, rifulgevano, ardevano sulle infinite perfette facce poligonali piane che chiudevano la superficie. La luce era fredda, ma lo splendore era quello di una stella.
Una squadra scese sul pianeta con una navetta. Gli esploratori poterono solo meravigliarsi dello sconfinato splendore su cui mettevano gli stivali, stupirsi per l’immensità vertiginosa di quella
gemma interminabile. Toccarono il cristallo e si meravigliarono
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