RIVISTA DEL VETRO Apr/Mag 2025 | Page 33

la farmaceutica. È la destinazione di quasi il 20 % dei veicoli prodotti in Italia, del 16 % dei prodotti farmaceutici e biomedicali, del 12 % dei macchinari e dei prodotti alimentari. Con i dazi al 10 % le perdite di export sarebbero almeno 3 miliardi; con dazi al 20 % arriverebbero dai 6 ai 10, e il calo delle esportazioni potrebbe sfiorare il 17 %. Il rischio dazi viene aggravato dalla preoccupante debolezza dei mercati tradizionali dell’ export italiano, in primis Germania e Francia. Che si indebolirebbero ancora di più nel caso di una guerra commerciale coinvolgendo, a cascata, tutte le catene di fornitura che vedono impegnate le aziende italiane. Le previsioni degli analisti dei più importanti centri studi- dall’ OCSE a Confartigianato, Prometeia, Svimez- sono decisamente pessimistiche. L’ ultimo rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall’ Istat indica 23.000 imprese vulnerabili all’ export, cioè aziende concentrate su pochi mercati di sbocco e su pochi prodotti, e che hanno una quota rilevante del proprio fatturato legato alle esportazioni. Le aziende vulnerabili alla domanda degli Stati Uniti sono 3.300 e vendono prevalentemente prodotti farmaceutici, meccanici( turboreattori e turbopropulsori), gioielleria, generi alimentari( vini e oli) e mobili. È una quota di mercato che vale 10 miliardi di euro. Ma c’ è anche un’ altra categoria di imprese vulnerabili, quelle che potrebbero soffrire per i maggiori costi dei prodotti importati quando i fornitori sono pochi e poco sostituibili. Il rischio riguarda 4.600 aziende, che impiegano 400mila addetti e generano il 5,7 % del valore aggiunto e il 23,8 % delle importazioni complessive. L’ Istat individua soprattutto 780 imprese dipendenti dalla Cina per i beni legati alla meccanica e al tessile, che potranno soffrire per le difficoltà della catena di approvvigionamento. I rischi per l’ Italia assumono un aspetto non meno preoccupante se si considera il diverso grado di importanza che l’ export verso gli USA assume per le singole regioni. Perché se la media nazionale è circa il 10 % sull’ export totale, una analisi dell’ Ufficio studi Unioncamere dell’ Emilia Romagna mostra che per l’ Abruzzo è oltre il 20 %, per il Friuli Venezia Giulia quasi il 17 %, per il Molise quasi il 15 %. In Lombardia, prima regione esportatrice in valore, il peso degli States è di“ appena” l’ 8,2 %, mentre in Emilia Romagna e in Toscana la quota statunitense incide per oltre il 12 %. Come potrebbe reagire l’ UE? Rispondendo colpo su colpo? Infilarsi in una logica di ritorsioni potrebbe non essere una buona strategia, come ha detto recentemente Mario Draghi, indicando come migliore alternativa quella di sviluppare le relazioni commerciali con Asia e Sudamerica. Una guerra commerciale scatenerebbe il caos nel commercio mondiale, ogni Paese sarebbe tentato di difendersi singolarmente come può, regole e accordi andrebbero in crisi, e la competizione crescerebbe a livelli selvaggi.
… MA ANCHE PER GLI USA Anche negli USA, peraltro, ci sono seri dubbi sui benefici della“ Trumponomics”. Il conseguimento della“ reindustrializzazione” americana non è affatto certo. Alcuni comparti, come l’ automotive e altri settori di consumo tra cui quello alimentare, sono fortemente integrati fra USA, Canada e Messico, e avrebbero grossi problemi. Il Messico è diventato il principale partner commerciale degli Stati Uniti, con circa 800 miliardi di dollari l’ anno di interscambio, ed esporta, oltre alle auto, elettronica, materie plastiche e altri prodotti manifatturieri per i consumatori statunitensi, che subirebbero forti aumenti dei prezzi. Le maggiori esportazioni del Canada verso gli USA consistono in petrolio, gas e altri prodotti energetici. Il Canada è il maggiore fornitore esterno di greggio. Imporre dazi sull’ energia canadese farebbe solo aumentare i costi energetici per imprese e famiglie americane. L’ aumento dei costi dovuto a dazi generalizzati sarebbe troppo elevato per essere assorbito dai rivenditori statunitensi e si tradurrebbe in prezzi più alti di quanto molti consumatori sarebbero disposti o in grado di pagare. Secondo uno studio della National Retail Federation, i consumatori americani potrebbero perdere tra 46 e 78 miliardi di dollari di potere d’ acquisto ogni anno. Anche la crescita dell’ economia USA verrebbe intaccata. Secondo un’ analisi del Peterson Institute for International Economics, un dazio del 10 % su tutte le merci importate dagli Stati Uniti comporterebbe per il Paese un PIL reale inferiore dello 0,9 % entro il 2026 e un aumento dell’ inflazione di 1,3 punti percentuali. Se poi vi fossero ritorsioni dalla Cina( ipotesi probabilissima), il PIL degli USA vedrebbe una ulteriore discesa di oltre lo 0,2 % entro il 2026 e l’ inflazione un aumento di 0,7 %. Il settore più colpito sarebbe il manifatturiero: i dazi sui semilavorati, se i fornitori esteri non possono essere sostituiti da fornitori locali, fanno salire i costi dei produttori finali. Andrebbero così deluse le promesse delle politiche protezionistiche su un aumento dei posti di lavoro e dei salari. Il risultato più probabile è che sia i lavoratori che le aziende sarebbero danneggiati: nel 2018-19, quando Trump impose i primi dazi, ne conseguì, secondo una stima della Tax Foundation statunitense, un aumento delle imposte per famiglie e imprese americane pari a 80 miliardi di dollari. Una simulazione del FMI( Fondo Monetario Internazionale) mostra che un aumento dei dazi del 10 % negli scambi tra USA e resto del mondo toglierebbe al PIL globale 0,4 punti di crescita entro il 2026. Ma gli Stati Uniti subirebbero un impatto più alto della media:-0,4% nel 2025 e-0,6 % nel 2026. Per il resto del mondo il calo sarebbe dello 0,3 % entro il 2026.
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