GAZZETTA DI LUCCA
Il grido inascoltato di Sarah Kane
sabato, 14 gennaio 2012, 13:11
di igor vazzaz
Sono sufficienti le prime frasi, i primi lacerti di testo, coaguli strappati di sofferenza
attraverso la lente di un’analisi chirurgica e arroventata, per calare la sala nel più
completo silenzio. Parole, parole gridate, sussurrate, strozzate e morsicate, nel labirinto
ossessivo che è l’abbacinante costruzione testuale di 4:48 Psychosis, opera ultima
firmata da Sarah Kane. Parole che frugano, scavano, smembrano corpo e anima. Parole
che s’accavallano, s’inseguono, si sovrappongono sulle tre pareti della scena
interamente coperte di pagine finemente dattiloscritte. Ed è la morte a teatro,
irrappresentabile, eppure presente, irriferibile e drammaticamente vera: tale fu, infatti, per
l’autrice, di certo la migliore esponente della Angry Generation britannica. Perché se la
protagonista di questo testo magmatico, privo di nomi, didascalie, di qualsivoglia
indicazione scenica, finisce per impiccarsi, Sarah Kane non è stata da meno, trovata
come fu, in quel 20 febbraio 1999, appesa, strangolatasi con i lacci delle scarpe nei
bagni del King’s College Hospital di Londra.
A portare sulle tavole del teatro di San Girolamo, per l’occasione accuratamente
ricoperte di scuro terriccio e affilate scaglie di vetro, il doloroso canto del cigno della
drammaturga inglese è un’attrice interessante (cui risparmiamo per genuino riguardo
l’infamante epiteto di giovane), la genovese Elena Arvigo, trentenne, curriculum di tutto
rispetto, ammirata due stagioni or sono in quella meraviglia che fu Le signorine di Wilko
di Alvis Hermanis. Recitazione tesa, affilata, nel tentativo d’assecondare i fendenti
d’un testo presentatoci nella puntualissima traduzione della compianta Barbara
Nativi, scopritrice italiana del fenomeno Kane. Lo spettacolo procede per flash, con
l’attrice ora a terra, ora alle prese con un curioso marchingegno da lotteria, ora seduta su
una sedia centrale, a fondo scena. Illuminazione fioca, alternata tra meste lampade in
proscenio e un piazzato tenue, più ampio. Il vertiginoso sguardo sull’abisso tracciato da
questa disperata e impossibile richiesta d’aiuto in forma di monologo (l’assenza di
specifiche direttive fa sì che 4:48 venga tranquillamente presentato con uno, due o tre
interpreti) trova rispondenze nell’esecuzione attorica sebbene talvolta è il testo stesso a
prendere il sopravvento, pure al di là della padronanza tecnica;
Tutte le numerose messe in scena è giusto rimarcarlo si sono incagliate nel paradosso
irrisolvibile di quest’opera che lega arte e vita o, meglio, arte e morte: come rappresentare
ciò che non può esser presente né presentato? Perché l’urlo feroce e inaudito di
SarahKane non è semplicemente (e ci scusiamo per la brutalità banalizzante di tale
avverbio) il grido d’una persona clinicamente depressa, bensì la visione, lucida e
spietata, della condizione umana, dell’assoluta vanità del tutto, di quel segreto indicibile
che pertiene e alla conoscenza dioni