potranno mai più essere congiunti, chi sa che la follia è, come dice Alda
Merini, la mancanza di qualcuno, ma soprattutto di colui che è consapevole di
non aver più speranza. Lì dove la scissione tra corpo e anima è vissuta tanto
profondamente da non aver speranza di ritornare all’unità, “di diventare ciò
che sono già”, il corpo e la mente abitano una periferia, un luogo estremo e
al confine tra lucidità e follia. Questo margine è il detonatore del senso, fatto
di significato e significante, delle parole della drammaturga inglese che
proclamano questa ferita tra la vita dei sensi, quella del sentimento e quella
dello stadio mentale. Ma nel proclamare questa rottura non ne fa una
condizione universale dell’essere umano, poitsoto uno stato soggettivo, che
non vuole privare il prossimo della propria gioia d’essere.
Elena Arvigo, attraverso un pensiero veicolato e arricchito dal
linguaggio del corpo, appiglia la sua scelta performativa a questa
speranza e con il suo stare sulla scena infonde nello spettatore il
sentimento contrario, riscoprendo così il senso vitale che abita ogni
stato di dolore. Qui la materia è luminosa, perché si intona in armonia e
disaccordo con lo spirito, dove c’è amore, lì c’è vita.
Questa lettura di 4.48 Psychosis non vuole, dunque, essere uno
spettacolo sulla follia intesa come quello stato di alterazione psico-emotiva
che trasporta il soggetto in un fuori dalla presa di realtà. D’al