Al centro qui, non c’ è la riduzione dei rifiuti, che pure è tra gli obiettivi dell’ impresa. Non varrebbe la pena, infatti, compiere uno sforzo organizzativo e finanziario così importante per recuperare e rivendere 6,26 kg per abitante( abbigliamento compreso) di beni usati, mentre vale sicuramente la pena, almeno secondo noi che scriviamo, dare lavoro a 315 persone, parte delle quali impegnate in percorsi di recupero dopo esperienze in carcere, altre da esperienze di malattia psichica o fisica.
In questo caso, possiamo descrivere l’ ipotesi da cui nasce Opniew & Co come: utilizzo di beni altrimenti destinati a smaltimento finalizzato a generare, attraverso un’ attività di mercato, posti di lavoro per soggetti svantaggiati in modo da favorire percorsi di apprendimento ed emancipazione.
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In Italia molto è ancora lavoro volontario
Ma nuove ipotesi sono possibili
In Italia, dove non esiste una politica organica per i centri di riuso, le iniziative, alcune delle quali capaci di un notevole impatto sociale, restano spesso invischiate in una retorica piattamente ambientalista, dove l’ unica variabile che viene narrata è la riduzione nella produzione dei rifiuti.
Le esperienze di centro di riuso vivono isolate l’ una dall’ altra, manca una riflessione organica, capace di costruire un linguaggio condiviso nella popolazione e tra gli amministratori locali.
Probabilmente per queste ragioni, negli ultimi dieci anni, sono nate decine di esperienze che prendono il nome di « centro di riuso » pur non avendone le caratteristiche costitutive: si va dal microcentro di Pergine Valsugana( in provincia di Trento), 30 metri quadri di negozio dell’ usato basato sulle donazioni e gestito da volontari, al centro di riuso « La bisaccia » di Capannori( Lu), che movimenta, grazie al lavoro dei volontari, un centinaio di tonnellate di beni ogni anno, messi a disposizione di chi va a ritirarli, senza che venga attivata, quindi, alcuna professionalità e senza un confronto con la domanda del mercato; al centro « Second life » di Bologna, ospitato in un capannone di 100 metri quadri, dove lavorano due operatori per movimentare circa 65.000 oggetti. Anche in questo caso non c’ è confronto con il mercato perché gli oggetti vengono presi gratuitamente da parte dei frequentatori del centro, non sono previste attività di riparazione né è previsto che si faccia preparazione per il riutilizzo o che si filtrino i beni altrimenti destinati a smaltimento.
Esistono tuttavia, anche in Italia, casi di eccellenza. Il centro di riuso di Vicenza, ad esempio, è gestito dalla cooperativa sociale Insieme che dà lavoro a 120 persone, in un sistema che integra gestione dei rifiuti, preparazione per il riutilizzo, riparazione e com-