studente mi domanda «scusi, ma dove
trovo tutto questo nella realtà?», lo spiaz-
zamento mi coglie. C’è stato un tempo in
cui queste visioni avevano una traduzione
politica; perché c’erano visioni contrastan-
ti che dialogavano o si combattevano tra
di loro e tu col tuo voto lasciavi un segno
sulla scheda che corrispondeva più o meno
a una visione. Ma oggi?
Paolo Di Paolo
Se tu sei convinto che «niente è inutile»,
anche laddove aleggia il disincanto preven-
tivo che ti vuole convincere che, dato che
non c’è niente da fare, tanto vale adattar-
si, riuscirai a sottrarti alla sua tentazione.
Però la domanda che pone il ventiseienne
Felice è impegnativa: può ancora essere la
politica il luogo in cui si esprime questo
impegno?
È vero, chi come me è nato negli anni
’80 e chi come lui negli anni ’90 condivido-
no questo sentimento di disappartenenza
politica. Forse con una piccola differenza:
che la generazione degli anni ’80 è stata
l’ultima a formarsi scolasticamente entro
il '900. È un dato statistico, però ha un suo
contraccolpo psicologico, perché le cate-
gorie novecentesche noi le abbiamo ancora
un po’ sfiorate, sia di natura ideologica che
spirituale. Per quelli nati negli anni ’90 –
non parliamo poi di quelli nati negli anni
2000, che sono completamente post-no-
vecenteschi, post-ideologici – l’anagrafe
dice ’900 ma tutta la loro vita è nel nuovo
millennio. E quelle certezze che il ’900 con-
segnava quasi in automatico, erano lette-
ralmente polverizzate sul finire del secolo.
Questo che significa? Che quando tu vai
in una scuola – cosa che a me capita fre-
quentemente – e chiedi ai ragazzi se in pro-
spettiva sarebbero disposti a impegnarsi
attivamente in politica, la risposta di solito
è un ghigno. Come a dire: «Ma è un com-
promesso!». C’è un automatismo ormai tal-
mente invasivo e demagogico, per cui fare
politica equivale a compromettersi. Questo
preconcetto è ben difficile scalfirlo.
Dopodiché, se fare politica significa
mettersi nel campo dei diritti sociali e
nel campo dell’etica, non per forza impli-
ca iscriversi a un partito. Però la disaffe-
zione alla politica è un problema perché
il rischio è che si traduca in disaffezione
alla democrazia. E infatti l’astensionismo
diventa sempre più ferocemente ampio, e
questo è pericolosissimo perché si lascia
fare ad altri che comunque faranno.
Però è vero quello che dice Felice: io
ho sempre votato – e questo forse a livel-
lo novecentesco l’ho un po’ assorbito: il
diritto-dovere del voto – però che l’abbia
fatto con la baldanza felice con cui altre
generazioni hanno pensato che il voto ve-
ramente contribuisse a un cambiamento e
non a una sottrazione, questo non mi è mai
accaduto. Forse, come diceva Eleonora, bi-
sogna ricostruire un pezzo di racconto, ma
non saprei dire né da dove né come.
Come possiamo oggi scorgere
un orizzonte che ridia vigore
all’impegno sociale e politico? A
cosa possiamo agganciarci?
Eleonora Artesio
Io mi aggancerei alla presa d’atto
dell’ingiustizia che sta alla base delle con-
dizioni materiali. Per questo mi stupisco
che le persone non ne assumano coscienza
e non costruiscano modalità di dibattito
pubblico, di opzione politica, che provino
a cambiare lo stato delle cose. Provo a spie-
garmi con tre esempi concreti.
Il primo riguarda le diseguaglianze di
salute. Abbiamo fior di letteratura che ci