LUCE estratti LUCE 318_Della Longa_Duomo di Gemona del Friuli | Page 5

I La facciata trecentesca del Duomo / The fourteenth-century facade of the Duomo Anno domini millesimo duecentesimo… Da un documento del 1261 nell’archivio storico della Pieve, si apprende che tale Paulino, cameraro della chiesa di Santa Maria di Gemona, affitta ad Andrea Sbutino di Gemona una proprietà terriera in località Masereit per la quale richiede, a titolo di censo aquileiese, la corresponsione di un canone annuale di dodici denari aquileiesi da versarsi alla luminaria della stessa chiesa. From a 1261 document in the historical archives of the Parish Church, it is learned that Paulino, cameraro of the church of Santa Maria of Gemona, rents to Andrea Sbutino of Gemona a landed property in the Masereit area for which he demands, as Aquileian census, the payment of an annual rent of twelve Aquileian dinars to be paid to the luminaria of the Church itself. I resti della fabbrica ferita del terremoto / The remains of the wounded church after the earthquake Immagine scanner-laser che palesa lo sbandamento dell’edificio / Scanner-laser image revealing the heeling of the building 68 LUCE 318 / PROGETTARE LA LUCE l duomo di Gemona del Friuli, una delle più alte testimonianze del gotico nel nord-est del Paese, ha subito le offese del terremoto del 1976. La violenza del sisma lacerò la vetusta fabbrica, scaraventando a terra il campanile e gran parte della navata destra; il Duomo ferito mostrava così il proprio interno, con la nave principale salva seppur pericolosamente piegata. Grazie ai cospicui interventi strutturali che hanno ancorato la compagine muraria al profondo sottosuolo, l’edificio è stato congelato nel drammatico stato di sbandamento procurato dal sisma. Il Duomo di Santa Maria Assunta è così divenuto uno degli edifici simbolo della ricostruzione in Friuli. Gli interventi promossi allora comportarono però anche la rimozione di quel che restava del sistema di illuminazione del passato a favore di un sistema di proiettori che privilegiava l’architettura ma che non dava degna accoglienza alla complessità rituale e devozionale dell’importante chiesa. I lavori recentemente intrapresi hanno inteso riqualificare l’antica chiesa; l’intervento principale ha riguardato l’aggiornamento dell’illuminazione artificiale e delle reti di supporto. Il progetto ha comportato attenzione non solo per l’architettura ma ha inteso restituire un degno habitat al vissuto ecclesiale. Un progetto quindi che risponde in maniera articolata alla complessità del tema e alla variegata fruizione di una chiesa insigne che al tempo stesso, come tante altre in Italia, è Bene culturale e Bene cultuale. Risponde con una oculata distribuzione di apparecchi illuminanti e infrastrutture elettriche, anche per contenere l’effettiva invadenza delle nuove tecnologie. Risponde con un sistema di gestione digitale che consente una efficace distribuzione e regolazione della luce secondo un programma di scenari condivisi col committente. Tutto ciò con modalità che, è giusto riconoscerlo, è ormai frequentemente proposta nelle chiese in cui si interviene attraverso il progetto. Fa da sfondo, a dirla tutta, un panorama non certo esemplare in cui gli interventi di illuminazione delle chiese – e tra queste anche di chiese illustri – sono promossi da fattori estranei alla necessità di perseguire la qualità della luce, quasi sempre motivati invece da urgenze di rispetto normativo in relazione alla sicurezza degli impianti e dell’edificio. Desidero in questo caso porre l’attenzione su uno dei tanti fattori in gioco, trattando di nuova luce artificiale in contesti storicizzati, quello della scelta tra apparecchi di illuminazione integrati all’architettura – invisibili o quasi – e quelli in cui gli apparecchi si mostrano alla vista. Nella prefazione al suo noto manuale sull’architettura della luce, Francesco Bianchi non lascia spazio ad alternative: “la prima cosa che bisogna imparare in fatto di illuminazione è che si deve creare una superficie illuminata senza rendere visibile la sorgente luminosa” (Architettura della luce, Kappa, Roma 1991, NdR). Senza precludere spazi di lavoro in una direzione che offre prospettive affascinanti, nello specifico delle chiese storiche ho più volte rilevato in passato le conseguenze e i rischi di una prassi – gradita da committenti e soprintendenze – che sembra quasi non conoscere alternative nel nostro paese. Prassi del nascondimento che nei contesti storici viene preferita più per comodità che non per appropriatezza. Non di rado, inoltre, è preclusa di fatto la possibilità di celare alla vista gli apparecchi per l’illuminazione. Nel caso specifico, l’antico duomo non possiede cornici o aggetti atti ad ospitare apparecchi per l’illuminazione secondo il modello per cui le lampade stesse – i proiettori moderni – sono occultati alla vista o fanno capolino per quel che basta dall’apparato decorativo dell’architettura. Invasivo. Nel campo dei beni culturali è prassi usare questo aggettivo, tratto dal linguaggio medico, per discriminare ciò che non è compatibile da ciò che lo è. In genere – anche se non mancano i casi opposti – un apparecchio celato o parzialmente celato sopra la cornice non risulta tale, mentre uno nuovo posto in vista corre il rischio a priori di essere considerato invasivo. Si tratta a mio avviso di spostare