Gabriele Falco
Pi’ rrite, pi’ pplagne
Edizioni Cinque Terre
essi che abbiamo verseggiato solo per la gente comune
e per nessun altro.
Chiarito ciò, cerchiamo di toccare il più
rapidamente possibile la questione concernente la
parlata adottata.
Premesso che non esiste un dialetto regionale
omogeneo e identico nella forma, poiché esso presenta
variazioni più o meno sensibili da zona a zona, abbiamo
scelto la parlata a noi più congeniale: quella che
pressappoco si può ritrovare, tenuto conto delle
numerose realizzazioni fonetiche e del patrimonio
lessicale che caratterizza ogni luogo, nell’entroterra
pescarese. Non sembri arbitraria tale scelta, poiché così
come ogni lingua si ritaglia, all’interno della realtà
circostante, una sua sezione, allo stesso modo si
comporta il dialetto (e il parlante all’interno di esso).
Questo non vuol dire che le singole parlate non abbiano
caratteristiche proprie. Tuttavia bisogna riconoscere che
all’interno di un dialetto vi possono essere svariate
realizzazioni a livello fonetico e morfologico. È
difficile stabilire, ad esempio, quale forma di periodo
ipotetico sia più corretta fra le seguenti: 1) Si fforre i’,
ji facerre vidè; 2) Si ffosse i’, ji facesse vidè; 3) Si
ffosse i’, ji facerre vidè; 4) Si fforre i’, i facesse vidè
(= Se fossi io, gli farei vedere).
Né è facile dire quale sia la forma più esatta del
verbo “Fare”, nella terza persona singolare del passato
remoto, modo indicativo. Si può infatti scegliere tra le
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