LA CIVETTA May 2019 | Page 37

arte e cultura

Roberto Devereux, opera scritta da Donizetti per il Teatro di San Carlo di Napoli e la cui prima rappresentazione risale al 1837, è ritornata il 12 aprile 2019 all’Hippodrome di Bristol in una ripresa della versione presentata nel 2013. All’epoca la Welsh National Opera aveva proposto l’intera triologia Tudor, con una mossa coraggiosa e rara (includendo anche Anna Bolena e Maria Stuarda). Delle tre produzioni, tuttavia, fu proprio la messinscena del Devereux, firmata dal regista Alessandro Talevi, a riscuotere maggiore successo.

L’opera è rientrata in repertorio alla fine degli anni ’60, dopo decenni di ingiusto oblio, grazie alle straordinarie interpretazioni di fuoriclasse del belcanto, prime fra tutte Leyla Gencer, Montserrat Caballè e Beverly Sills, fautrici insieme a Maria Callas, Joan Sutherland e Marilyn Horne, di quella “belcanto renaissance” che ha segnato la seconda metà del secolo scorso. Da allora l’opera è rimasta appannaggio di quelle primedonne che per doti vocali ed espressive hanno osato affrontarla. In anni recenti Edita Gruberova ne ha fatto un personale cavallo di battaglia.

La vicenda si concentra sull’amore di Elisabetta I per Roberto Devereux, Conte di Essex. Nel libretto di Salvatore Cammarano i fatti storici sono presentati con grande licenza letteraria. Elisabetta appare vittima del suo stesso potere, e i suoi sentimenti di affetto sono destinati a condannere l’incostante Essex al patibolo, costando peraltro a quest’ultima qualsiasi prospetto di felicità.

Nella regia realizzata da Talevi, fin dall’inizio la scena sembra essere dominata da un peculiare senso di oscurità e claustrofobia. Le nere e mastodontiche pareti, la simbologia animale e l’oscurità di finestre smerigliate incapaci di dare alcuna luce sembrano insieme rispecchiare in chiave moderna il senso di chiusura, insicurezza e censura del periodo storico dell’opera, nonché i cupi tormenti amorosi dei protagonisti che condividono il palco.

L’evidente modernizzazione della scena e dei costumi (firmati entrambi da Madeleine Boyd) è messa in atto senza tradire il senso drammaturgico dell’opera, trovando una chiave interpretativa interessante nella figura della Regina Elisabetta, accostata all’immagine di un ragno, potente, paurosa e letale, ma tragicamente destinata alla solitudine.

Per quanto riguarda i costumi, gli abiti della regina sembrano ispirati allo stile inconfondibile di Vivienne Westwood. Il look trasmette la sfrontatezza e il potere delle regina nel primo atto, forte e innamorata, vestita in drappi di rosso fiammante, in netto contrasto col momento finale in cui il suo tormento e l’angoscia hanno raggiunto il culmine. La regina appare allora un essere debole privo della sua corona, calva e senza alcun ornamento regale sul volto, distrutta e pronta alla morte (“Dov'era il mio trono s’innalza una tomba... In quella discendo... fu schiusa per me.”).