LA CIVETTA March 2014 | Page 95

Ho conosciuto ragazzi provenienti dalle più svariate parti del mondo con i quali mi divertivo a paragonare le nostre diverse abitudini e costumi. Più volte ho rimproverato chi osava mangiare la pasta col ketchup o la pizza con l'ananas così come qualcuno di loro non riusciva a capire come potesse il mio stomaco ingerire così tanta pasta. Quando apprendevano che ero italiana, esclamavano a gran voce quasi divertiti: “pizza, spaghetti, Berlusconi, mafia”, imitando la nostra gestualità. Al suono di quelle parole provavo un pizzico di fastidio, come si poteva ridurre il mio Paese a quei pochi termini? D'altronde come potevo biasimarli?

Le prime settimane mi sentivo ancora un'intrusa. Sorridevo ogni qual volta incappassi in locali dai nomi palesemente italiani, cercavo disperatamente un posto dove poter bere un “espresso” e sentivo la mancanza della pizza, delle lasagne della mamma, del calore del sole sulla pelle e del profumo del mare. Nonostante questo ero determinata a non voler frequentare italiani perchè si sa, finisci per parlare solo la tua lingua e torni in Italia che l'inglese lo sai meno di prima. Cosi li evitavo e quando sentivo parlare italiano o un inglese con accento familiare, abbassavo lo sguardo facendo finta di niente. Ma ad un certo punto diventa più forte di te. In un paese straniero, dove niente ti appartiene, hai bisogno di qualcosa che ti faccia sentire a casa, e così ho ceduto a quella forza che mi spingeva verso quel gruppetto o quella persona che “sembrava” italiana. Si perchè noi ci riconosciamo anche senza parlare, ci guardiamo in faccia, ci scrutiamo per qualche minuto e poi scatta la fatidica domanda: sei italiano? Alla risposta positiva sorridiamo entusiasti e ognuno spiega il motivo che l'ha spinto a lasciare il nostro amato Paese e quello che lo spinge a rimanerne lontano. Ci lamentiamo del tempo, del cibo e amareggiati affrontiamo il “discorso Italia”: non c'è lavoro, non ci sono soldi, è un Paese alla deriva.