Prendiamo come analogia un* italian* che viaggia in Spagna, e un* italian* che viaggia in Cina: il prim* avrà molte meno difficoltà ad ambientarsi, perché lingua, cultura, e tradizioni spagnole sono più simili alle nostre rispetto a quelle cinesi. Così vale anche per le traduzioni, con la difficoltà aggiunta della reticenza delle case editrici di interrompere la scorrevolezza della lettura con note e spiegazioni a fondo di pagina. Questo fenomeno è particolarmente evidente e dannoso quando la fonte è scritta da minoranze etniche, membri dell’LGBTQIA+, donne, o chiunque faccia parte di un gruppo “ai margini”, non di maggioranza. L’autrice Italo-Ghanese Djarah Kan ha titolato il suo primo libro “Ladri di denti”. Kan ha spiegato il significato di questo titolo in un’intervista a VD News (su Youtube: “Talk With: Djarah Kan”): “Nella mia esperienza personale mi sono sempre sentita derubata. Quando ti vengono cavati i denti di bocca, non si può parlare, c’è una difficoltà. Che cosa fa il razzismo quindi? Ti cava letteralmente le parole, i denti, di bocca, impedendoti di poter praticamente entrare nel mondo e di parlare del mondo così come lo vedi tu”. Questa metafora funziona perfettamente anche nel caso del problema descritto da Venuti, dove le voci di minoranza vengono appiattite e uniformate alla “normalità”, alla maggioranza eurocentrica, maschilista, eterosessuale, eccetera. Per questo è importante che i traduttor* non siano invisibili, e, anzi, siano molto visibili nelle loro diversità, così da rendere giustizia a quei source texts pieni di contenuti che rischiano di essere persi. Ad alcuni potrà sembrare un discorso trascurabile, ma non lo è.
Vorrei concludere con un esempio preso dal mondo dell’archeologia, diventato famoso per la sua assurdità. Nel 1878, alcuni archeologi scavarono una tomba vichinga in Svezia, a Birka: uno scheletro e delle armi di alta qualità. Anche a causa del fatto che la maggior parte degli studiosi ai tempi erano uomini, il sepolcro fu descritto come la tomba di un importante guerriero vichingo, senza pensarci due volte. Nel 2014, le ossa furono analizzate scientificamente (nel 1878 le “analisi” costituivano nel buttare un occhio e basta), e i risultati dimostrarono che probabilmente si trattava di uno scheletro di donna. Nel 2017 ogni dubbio venne messo a tacere quando l’analisi del DNA delle ossa confermò due cromosomi X. Alcun* studios* cominciarono a domandarsi se per caso lo scheletro della donna fosse finito lì vicino alle spade, quasi per sbaglio, ma che le spade non fossero sue. Cosa che naturalmente non era mai stata messa in dubbio quando si era tutti convinti
che lo scheletro fosse di un uomo, che invece era subito stato etichettato come importante guerriero. Un privilegio che lo scheletro di donna ha invece dovuto faticare per raggiungere.
Esempi come questo dimostrano i profondi effetti negativi causati dalla mancanza di voci di minoranza quando si tratta di raccontare storie altrui. Noi tutt* prendiamo per scontato che gli uomini primitivi si dividessero il lavoro fra uomini = caccia, e donne = raccolta, ma molt* studios* hanno iniziato recentemente a ipotizzare che questo rigido schema sia stato dettato dai preconcetti maschilisti degli studios* del passato che per primi hanno iniziato a raccontarci la storia, invece che da fatti scientifici.
Il Master’s of Translation a Bristol mi ha aiutata a capire che la traduzione è molto più di quel che sembra. Forse il motore della macchina che si accende quando giro le chiavi non è una traduzione, ma di sicuro il tradurre comporta considerazioni etiche e risvolti molto più profondi di quello che pensavo.