Tradurre tutto, da tutt*, per tutt*
Carlotta Belluzzi
Masters student in Translation
Che cosa significa tradurre? Tradurre è un’azione: si trasporta un messaggio da un linguaggio ad un altro. Non solo con lettere e parole - l’adattamento di un libro in film è, in un certo senso, anch’esso una traduzione. A pensarci bene, la maggior parte di ciò che ci circonda può essere definita, a grandi linee, una traduzione: i segnali elettronici del computer che ci permettono di guardare un video con un singolo tocco, i solchi del vinile che si trasformano in musica, le indicazioni (spesso incorrette, nel mio caso) date a un* turista.
Da tre mesi sto studiando traduzione al Master’s in Translation all’università di Bristol, ed è da tre mesi che cerco di analizzare nella mia testa se ogni piccola cosa che vedo è una traduzione. Giro la chiave e parte il motore: le componenti meccaniche dell’automobile hanno tradotto movimento in energia? O viceversa…? L’ingegneria non è mai stata il mio forte. Quello che ho imparato in questi mesi di Master’s, però, sono le incredibili ripercussioni e gli enormi effetti che il tradurre ha sulla vita di tutt* noi, ad un livello molto più profondo del sapere come chiedere un bicchiere d’acqua a Tokyo.
Nel circolo accademico dei traduttor*, c’è un concetto “inventato” dal professore universitario Lawrence Venuti: The Translator’s Invisibility, inizialmente un articolo nato nel 1986, poi trasformato in un libro nel 1995. Venuti parla del concetto dell’indivisibilità del traduttor*, ovvero di quella illusione che una buona traduzione dà al lettor* che il testo sia stato scritto nella lingua del lettor*. Quando leggiamo Kafka in italiano, pensiamo che Kafka è proprio bravo, come se il libro fosse stato scritto da lui in italiano. È molto comune finire un libro senza mai aver pensato alla persona che ce lo ha reso leggibile nella nostra lingua, e alle sue fatiche. Questa mentalità porta con sé ovvi problemi legati alla svalutazione del lavoro del traduttor*, tanto che ci sono campagne sociali come “#TranslatorsOnTheCover” che esigono che le case editrici stampino il nome del traduttor* sulla copertina del libro, vicino al nome dell’autore. Dopotutto, se l’autor* è la madre del testo, certamente bisogna anche dare credito al traduttor*, che ha anch’egli/ella…dato vita…ad un* gemell*? (È incredibile a dirsi, ma litri e litri di inchiostro sono stati versati nei circoli accademici per discutere del “problema” della “paternità” di un testo e della sua traduzione, ma per ora meglio non pensarci). Il fatto rimane che senza il traduttor*, il libro nel “target language” (ovvero, nella lingua in cui il testo deve essere tradotto) non esisterebbe, ed è quindi giusto riconoscere l’intenso lavoro svolto non solo dall’autor*, ma anche dal traduttor*.
A parte ciò, l’invisibilità del traduttor* porta con sé altri rischi. Venuti sottolinea il fatto che l’ambizione di creare una traduzione che deve principalmente essere scorrevole nel target language, rischia di tralasciare elementi importanti presenti nella fonte (source text). Se la creazione di una lettura scorrevole è il più importante obiettivo del traduttor*, ciò significa che gli elementi più “estranei”, o di “Altro” nella fonte vengono appiattiti per non creare troppo disturbo al lettore del target language: molte case editrici non vogliono note a piè di pagina, o persino appendici con note di spiegazione.
Questo ovviamente crea più problemi più distanti sono le culture di provenienza della fonte (source culture) e della traduzione (target culture).