Migrante: participio presente del verbo migrare. Viene definito dall’OIM (organizzazione mondiale delle migrazioni) come ‘un termine generico non riconosciuto dal diritto internazionale che definisce chiunque si allontani dalla propria residenza abituale, sia all’interno di un Paese che attraversando un confine internazionale, in modo temporaneo o permanente, e per diverse ragioni. Si tratta di un termine impreciso, non adatto a cogliere i diversi percorsi legali e di vita delle persone che compiono un percorso migratorio (proprio a questo proposito si delineano altre definizioni come quelle di migranti economici o politici). Questo termine ha gradualmente sostituito il più comunemente utilizzato ‘immigrato’, decisamente più escludente e spesso accostato alle parole straniero e extracomunitario, ostacolando di fatto il processo di integrazione dei migranti, rendendoli perennemente ospiti (talvolta indesiderati) nel Paese in cui vivono e lavorano.
cambio di rotta nella narrazione delle migrazioni: la dimensione del dolore, del lutto e della perdita prendono il sopravvento; è la spettacolarizzazione della sofferenza a predominare. Se dà un lato la più frequente esposizione mediatica ai soprusi e violazioni a cui i migranti sono soggetti può contribuire a una sensibilizzazione generale, dall’altro è proprio l’eccessiva esposizione a notizie che li vittimizzano a favorire la diffusione di atteggiamenti paternalistici e deumanizzanti, che portano a percepire i migranti come una massa indistinta di persone costantemente sofferenti e senza agency.
'Emergenza’: I media italiani spesso spiegano l’evento migratorio con toni emergenziali, descrivendo il fenomeno quindi come un fatto eccezionale. Attraverso questa narrazione però si costruisce una realtà mediatica che contrasta con la realtà dei fatti, risultando limitante e poco funzionale a comprendere la complessità delle dinamiche migratorie. L’evento emergenziale è infatti tendenzialmente percepito come anomalo, fuori da comune, su cui non abbiamo potere e dipendente da cause che non ci riguardano. Questa prospettiva ignora le precise dinamiche sociali e storiche e la responsabilità delle scelte politiche in merito che, al contrario, influenzano profondamente i processi migratori e ne determinano gli esiti.
Nonostante l’emergenza di fatto non esista più, il tema continua ad essere affrontato da questa prospettiva. Si dovrebbe invece normalizzare l’esistenza dei flussi migratori, evitando di descriverli come eccezionali e difficili da gestire, piuttosto contribuendo a valorizzare l’importanza e la ricchezza di un panorama sempre più multiculturale, cercando di sviluppare reti di connessione tra cittadini locali e non, costruendo spazi multiculturali e antirazzisti.
Nonostante, per fortuna, in Italia esistano associazioni, spazi, scuole, centri che promuovono progetti propensi alla creazione di una dimensione più interculturale, l’opinione pubblica italiana nei confronti del fenomeno migratorio è ancora molto divisa sulla questione, anche a causa della percezione distorta che si ha del fenomeno, frutto di una disinformazione strutturale.
Rifugiato invece è colui che, secondo la definizione fornita dalla convenzione di Ginevra, è ‘perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato’. Il termine rifugiato si distingue dal termine ‘migrante’ quindi, per la necessità di protezione internazionale e per la sua valenza giuridica.
’Rifugiato’ è decisamente più utilizzato nel linguaggio mediatico odierno, in particolar modo dopo il naufragio di migranti del 3 ottobre 2013 a Lampedusa, in cui vennero recuperati 368 corpi. A seguito di quello che venne definito come il più grave naufragio fino a quel momento, ci fu un