CIRCOLO
C{&/@}T
{&/@}TILDELL’ERRORE
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foto di Guido Mencari
di Tiziano Massaroni
Escludo da questo ragionamento i sistemi
teatrali cine-televisivi e o d’intrattenimento, a loro una puntata speciale. Parlo di
micro realtà che lavorano nel e con l’ignoto e che in esso si aprono e si chiudono. Si,
sto parlando di ricerca in senso scientifico.
Il problema è che ciò accade in teatro ed il
teatro non è un laboratorio ma una triade:
ci sono degli artisti, degli organizzatori e il
pubblico. E come per accendere un fiammifero, se manca uno dei tre elementi del
triangolo (combustibile comburente innesco), non avremo
mai il fuoco. Lo chiamo problema perché comporta che ogni
elemento debba rincorrere gli
altri per esistere. Questa condizione in un certo senso fa venir
meno la ricerca, che di principio
non vuole condizioni. Qui a mio
avviso s’innesca il circolo dell’errore. L’artista non vuole
stringere patti in nome della
sua libertà di ricercatore, il pubblico vuole la libertà di non
seguire la ricerca di uno sconosciuto di turno, l’organizzatore
vuol farsi creatore di un disegno selezionando artisti e seducendo il pubblico.
Dovremmo qui aprire una
lunga ed interessante parantesi
su Darwin e il mito di Narciso,
quando avremo altre 3500 battute spazi compresi lo faremo.
Tutti e tre gli elementi commettono un errore in nome di una
libertà che il teatro non concede a nessuno. L’artista vuol
imporre la sua ricerca, il pubblico chiede di comprendere questa
ricerca, l’organizzatore, in carenza del noto,
e per attuare il suo disegno, cerca di colmare il vuoto dell’ignoto attuando una seduzione mirata e facendosi esso stesso tramite ermeneutico tra l’opera ed il pubblico.
È in atto un errore multiplo che annulla il
teatro ed il fuoco non si accende.
È l’occidentale ricerca del significato che
blocca tutto, come in una rigida morale.
L’artista vuol trasmettere il non trasmissibile, ovvero la sua ricerca; il pubblico ha
necessità di comprendere l’incomprensibile (fosse comprensibile sarebbe già
codice, dunque non ricerca, come l’arte
contemporanea oggi, linguaggio di
massa), per liberarsi dal senso di
frustrazione semantico; l’organizzatore cerca di mediare
seducendo lo spettatore e
poi spiegando l’opera, ovvero l’inspiegabile.
Io credo che solo chi ancora
non ha maturato categorie, o
per età o per diversità radicali, possa recarsi a teatro.
Oppure fra venti anni, partendo da zero, mettendo in
atto una pedagogia fortemente decostruttiva. L’educazione, se ci deve essere, è
un atto a due e se io volessi
oggi portare una persona a
teatro dovrei prima innamorarmene. Non può esistere
un’educazione collettiva del
pubblico, se non religiosa, ovvero senza
crescita e solo convincitiva.
Il circo da qualche anno entra ed esce dal
nostro spazio. Prima di tutto sta attivando
un pensiero, stiamo parlando. Io credo
che davvero non sia in niente accorpabile
a quelle che erroneamente si chiamano
arti performative, che si dovrebbero chiamare danza e basta. È corpo come la
danza, ma sta cercando altro e sta lottando con se stesso vedendo di capire cosa
fare del “numero”. Consiglierei di chiamarlo solo circo, l’aggettivo “nuovo” è un ossimoro sottinteso, e “contemporaneo”
anche peggio, perché associato all’arte è
qualcosa ormai di arcaico. Il circo ha la
carica e l’immaginario della sua storia, dei
suoi chapiteau, e questa è la sua vera
forza. Perché è ancora tutto così e all’alba
di nuove domande. Il pubblico lo ama, gli
artisti sanno ancora che il pubblico fa
parte della magia del fuoco, gli organizzatori stanno un po’ a guardare, senza mettere troppo bocca, e questo silenzio è una
grande bellezza.
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jugglingmagazinenumero70marzo2016